La 'Bestia' e i migranti in fuga dai narcos
All’inizio c’è “La Bestia”. Alla fine gli “alberi dei reggiseni”. E in mezzo l’inferno, la tragedia degli emigranti centro-americani che attraversano il Messico per tentare di arrivare negli Stati Uniti e che il giornalista salvadoregno Óscar Martínez ha descritto in una serie di reportages. Poi diventati un volume che, una volta pubblicato in inglese, è stato definito dall’Economist e dal Financial Times “il miglior libro dell’anno”, mentre il New York Times ha paragonato l’autore al George Orwell di “The Road to Wigan Pier”.
“Los migrantes que no importan”, era il titolo originale in spagnolo. Ma in inglese è diventato “The Beast: Riding The Rails And Dodging Narcos On The Migrant Trail”, titolo ripreso anche dall’edizione italiana per Fazi: “La bestia, il treno della speranza per i migranti in fuga dalla povertà e dai narcos”, per cui Martínez ha appena ricevuto il Premio Internazionale Marisa Giorgetti. “La Bestia è un treno merci che percorre il Messico su differenti tratte”, spiega al Foglio Martínez. “Sono treni commerciali che principalmente trasportano cemento o cereali, ed è il trasporto principale dei migranti più poveri che devono attraversare tutto il Messico per avvicinarsi alla frontiera con gli Stati Uniti. Lo chiamano ‘La Bestia’ perché, letteralmente, lo montano, aggrappandosi al tetto come polpi”. Con immaginabili pericoli. “Ci sono ospizi in Messico dove c’è solo gente mutilata dalla Bestia, gente che ha perso le proprie braccia e gambe quando sono caduti dal treno”, spiega Martínez. Ad altri le rotaie hanno tagliato direttamente la testa. A volte si cade per il sonno o per i contraccolpi di frenate o accelerazioni. “Non è un treno per passeggeri. I vagoni sono chiusi con catenacci e lucchetti. I migranti viaggiano aggrappati al tetto in tragitti di differente durata. Ci sono quelli di sei ore, quelli di undici ore, ci sono tragitti di venti ore. È il trasporto degli emigranti di terza classe, quelli che non hanno potuto pagare un trafficante”. Un “coyote”, come dicono in Centroamerica, o “pollero”, come dicono in Messico. Ma coyotes e polleros di fatto hanno finito per infilarsi anche in questo business, e a volte la gente cade giù per via delle furibonde battaglie che sui tetti in movimenti si scatenano tra loro e i narcos che cercano di portargli via i migranti. O gruppi indipendenti e ferocissimi di rapinatori, spesso i semplici rancheros che abitano ai lati della linea, e che si arrampicano per depredare e stuprare. Spesso i migranti riescono a difendersi, usando sassi e bastoni. E sono allora i banditi a essere buttati giù e a finire decapitati o mutilati.
“Questo treno è diventato un simbolo e un mito fosco”, ci spiega Martínez. Addirittura lo scorso luglio, giusto il mese dopo l’uscita dell’edizione inglese del libro in paperback, lo U.S. Customs and Border Protection ha commissionato una canzone in stile tradizionale guatemalteco intitolata anch’essa “La Bestia” che è andata in onda su molte radio centramericane apposta per spaventare e dissuadere i migranti. “Migranti da tutte le parti/ si trincerano tra i binari/ molto lontano da dove vengono/ più lontano di dove vanno”, recitano i versi. “Aspettano il tremare della terra/ il sibilo delle ruote/ appare tra la montagna/ il minaccioso serpente di acciaio/ sono le sue squame/ di acciaio anche il suo ventre/ La Bestia del Sud lo chiamano/ il maledetto treno della morte/ con il diavolo nella caldaia ruggisce/ e si ritorce”. Segue un invito ad aver fiducia nei percorsi di emigrazione legali.
[**Video_box_2**]Ma “la Bestia” è appunto solo l’inizio di un percorso in cui poi i migranti sono taglieggiati, trucidati e stuprati dai narcos, con cui le loro rotte si mescolano, ma anche dalle polizie municipali e statuali messicane, che per Martínez “si distinguono a fatica dai banditi”. Orrore finale, nei deserti allucinati al confine con gli Stati Uniti in cui Roberto Bolaño ambientò il suo apocalittico “2666”, “il mito dell’albero di reggiseni, un alberello del deserto a cui sono appesi reggiseni e slip delle migranti stuprate dai banditi lungo questo tratto di confine. La loro biancheria intima viene considerata una specie di trofeo”. Spiega Martínez: “L’ho definito un mito non perché non sia vero, ma perché si tratta di più alberi, non di uno solo. Stuprare le donne che vogliono attraversare il confine è pratica diffusa lungo tutta la frontiera, da Tecate, passando per La Rumorosa El Centinela, fino al vicino stato di Sonora”. Molte altre donne finiscono direttamente nei bordelli: un altro modo in cui per Zetas e gli altri narcos i migranti stanno diventando una risorsa altrettanto importante della droga. “Ci sono 28 figure delittuose che secondo la Convenzione di Palermo possono essere commesse dal crimine organizzato. I cartelli messicani ne commettono 27, tralasciando il traffico di uranio arricchito solo perché non lo hanno”. “Per loro il migrante che attraversa il Messico è come il tabacco che viene masticato prima di essere sputato: lo mordono, spremono assolutamente tutto quello che possono, prendono una quota per il passaggio, prendono una quota per cercare di avvicinarsi alla frontiera, sequestrano, stuprano le donne, le fanno prostituire, obbligano a portare droga, e dopo aver succhiato tutta la sostanza non offrono niente in cambio”. Nella differenza dei contesti, Martínez ritiene che ci sia un’importante convergenza con quel che accade ai migranti nel Mediterraneo. “Attraverso la storia, la logica del crimine organizzato è sempre stata di tipo territoriale: dominare un territorio e commetterci tutti i delitti che fruttino denaro, non solo il traffico di droga. Gli Zeta hanno finito per monopolizzare la vendita di zampe di pollo nel Nuevo Laredo”. Ovviamente, all’origine di tutto ci sono i problemi del triangolo El Salvador-Honduras-Guatemala: tre paesi con livelli di ineguaglianza e violenza che secondo Martínez “rappresentano una specie di manuale del come non fare un paese”. Una situazione in cui nel suo El Salvador non ha inciso nemmeno l’arrivo al governo della sinistra ex-guerrigliera del Farabundo Martí, su cui l’autore esprime un giudizio di “completo fallimento”.