Le fave, il mese di maggio, l'importanza dei Fabii e la fine acerba di un cugino superdotato

Alessandro Giuli

    I morti acerbi non finiscono nei Campi Elisi, però qualcosa di loro resta, a differenza di coloro il cui destino si compie nel tempo mediamente prescritto dal fato. I morti acerbi vengono ricordati in questi giorni nel calendario romano antico, nelle celebrazioni notturne dei Lemuria (fino a giovedì). Sono giovani (quando si dice giovani ormai s’intende al di sotto dei trenta-trentacinque anni), nel pieno vigore della forza, ma vengono mietuti anzitempo come spighe verdi. Per cause accidentali, traumatiche, o malanni imprevisti. Non matureranno mai. Immagino, e sono in buona compagnia, che siano un po’ tutti figli di Remo, l’archetipo del fratello-gemello che s’immola all’atto di fondazione dell’Urbe storica, e lo fa – di là dall’ineluttabile suo gesto titanico di scavalcare il perimetro di Roma tracciato da Romolo – perché alla città dei vivi corrisponda il suo calco negativo: la città dei morti, Remuria, o Lemuria. Per capire bene questa strana topografia metafisica ci si può figurare lo schema del paradiso e dell’inferno danteschi: due montagne speculari, due piramidi opposte una all’insù l’altra all’ingiù, reciprocamente solidali. Penso che i morti acerbi non si reincarnino, stanno lì sotto ad alimentare un serbatoio di energia carsica utile a chi sta sopra. Ma ogni tanto recriminano pensando a quel che si sono perduti scomparendo alla vita, e allora una volta all’anno sono tentati di fare qualche scorribanda come Remo. Sicché occorre sfamarli gettando loro fave nere, voltàti di spalle, per rispedirli satolli e coccolati nella loro città in bianco e nero.

     

    Così insegnano gli avi sapienti. E’ un caso che le fave si mangino nel mese di maggio? Non lo è. Per voi che le mangiate, ovviamente. Io no. Quando me le offrono dico che non riesco più a trangugiarne per via d’una pantagruelica indigestione, ma non è proprio così. C’è una ragione, diciamo, pitagorica, e c’è una ragione un po’ speciale. Le fave hanno a che vedere con il mondo infero, secondo alcuni autori la loro forma ricorda i genitali maschili o il profilo di un feto, il loro odore evocherebbe lo sperma. Il nome latino della fava, faba, è connesso a un’antichissima gente romana, i Fabii, quelli di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, per capirci. La tradizione narra fra molte altre cose che trecento di loro, giovani e forti, finirono trucidati dagli Etruschi in un’imboscata sul fiume Cremera presso Veio. Non entro nella questione storico-religiosa – consiglio però di leggere il libro “Nomen Fabium” (1973) del mio professore universitario Enrico Montanari –, mi limito a dire che le fave mi ricordano i Fabii, e sopra tutto uno dei morti acerbi più cari che si chiama Fabio ed era il mio cugino grande. Quasi tutti, nella nostra esistenza, abbiamo pianto un Fabio e non importa che si chiamasse proprio Fabio, conta la fabitudine. Il mio era bellissimo altissimo intelligentissimo spiritosissimo sportivissimo e un gran cazzaro. Giocavamo a calcio e a tennis, ascoltavamo Vasco, penzolavamo assieme come matti dal davanzale dell’attico in cui abitava. Mi ha insegnato un sacco di cose sulle donne e sul sesso e io per ricambiarlo ho fatto la spia ai suoi genitori quando lui mi disse che ogni tanto fumava le canne (forse non era vero, forse era cazzaro anche in questo, però mia zia lo prese sul serio e fu corcato). Voleva fare il militare di carriera ed è stato lui a regalarmi una cintura verde dell’Esercito che indosso ancora oggi, sfidando gli sguardi un po’ disgustati di chi s’intende di moda o di robe estetiche. Naturalmente mi diceva di essere superdotato e magari in questo non era cazzaro perché tutte le donne lo inseguivano sbattendo le palpebre (poi ha sposato la migliore delle sue pretendenti). Gli piaceva apparire, ma nell’essenza era un soldato al servizio della Dea Generosità (e della commedia, per lo meno del mio concetto di commedia). Sfamava il suo dio facendo il servizio d’ordine nelle chiese con uno strano segnetto appeso al bavero della giacca, io scuotevo la testa sperando per lui che fosse soltanto un’occasione per rimorchiare, considerando che amava parecchio motteggiare il suo credo e andava dicendo in giro che suo fratello era talmente vanitoso da indossare mocassini fatti con “pelle di culo del papa”. Una volta, io già più grandicello, mi disse: “Sai che forse entro nei servizi segreti?”. Risi tanto e volevo abbracciarlo (forse lo abbracciai): “Complimenti, cominci bene con la segretezza!”. Insomma un gigante. Se ne andò vantando di avere “due palle così”, ed era vero. Queste mie righe sono sette fave nere che offro a lui e a tutti i Fabii.