Cate Blanchett nel film "Carol"

In “Carol” a intrigare è l'amore lesbo. Cassel regista si riscatta. Benchetrit racconta le periferie

Mariarosa Mancuso
A Cannes il film Cate Blanchett e Rooney Mara esaltanti per bellezza e bravura. Proiettati al festival uno dopo l'altro, "Carol" e "Mon roi" sono il trionfo dell'antipatia.

CAROL di Todd Haynes, con Cate Blanchett (concorso)

 

Arriva Todd Haynes – il regista di “Lontano dal Paradiso”, Julianne Moore con i capelli e gli abiti intonati al foliage in un melodramma da fare invidia a Douglas Sirk – ed è subito incanto. Il romanzo che Patricia Highsmith scrisse nel 1952 con lo pseudonimo di Claire Morgan (esce da Bompiani) non era francamente gran cosa: diventò di culto sotterraneo perché le innamorate erano due donne. Una ragazza che fa la commessa in un grande magazzino, reparto giocattoli. Una signora che vorrebbe una bambola per la figlia e finisce per comprare un trenino elettrico, dimenticando i guanti sul bancone. Cate Blanchett e Rooney Mara sono di strepitosa bellezza e bravura. Gli abiti, i cappelli (la costumista si chiama Sandy Powers), gli arredi, gli angoli di New York e i motel della fuga d’amore, curati nei minimi dettagli. Segni dei tempi: in previsione di un viaggio ci si faceva scrivere al fermo posta, al New York Times c’era sempre un impiego per una ragazza aspirante fotografa.

 

MON ROI di Maiwenn, con Vincent Cassel (concorso)

 

Storia d’amore, andata a male assieme ai legamenti crociati di un ginocchio. Al centro di riabilitazione, Emmanuelle Bercot (qui attrice accanto a Vincent Cassel e regista in proprio del brutto film d’apertura “La Tête haute”, con Catherine Deneuve) va di flashback. Ad accoglierla, una fanatica del corpo che manda messaggi, ovvero: la teoria psicosomatica estesa agli incidenti sugli sci. Vincent Cassel è bravo, con tendenza ad andare sopra le righe. Emmanuelle Bercot sta sotto il minimo richiesto a un personaggio che deve caricarsi mezzo film sulle spalle. Entrambi, va detto, risultano piuttosto antipatici. Il confronto con la passione che Todd Haynes fa scatenare in “Carol” – i film sono stati proiettati uno a ridosso dell’altro, ai direttori di festival piacciono gli accoppiamenti giudiziosi - peggiora le cose. Per il risvolto sociale, quest’anno va molto, al centro di riabilitazione gli immigrati sono in maggioranza.   

 

ASPHALTE di Samuel Benchetrit, con Isabelle Huppert (fuori concorso)

 

[**Video_box_2**]Vignette, sketch, episodi accostati senza una trama. Un inquilino non paga la sua quota per l’ascensore, subito dopo perde l’uso delle gambe. Un astronauta mandato sullo spazio dalla NASA finisce in Francia, nell’appartamento di una signora marocchina (lei gli fa il cuscus, lui le racconta come vanno a finire le soap). Un ex attrice che non ha neppure aperto gli scatoloni del trasloco mostra i suoi vecchi film a un ragazzino (Jules Benchetrit, nipote di Jean-Louis Trintignant, figlio del regista e di Marie Tintignant) che in bianco e nero non ha mai visto neppure lo schermo del cellulare. Cose che capitano in un palazzone di periferia, piuttosto malconcio. La gara per togliere a Valeria Bruni Tedeschi la sua aria da gran signora segna un altro record: già barista in “La buca”, qui fa l’infermiera, maglioni con i pallini e calzettoni a righe sotto i sandali.

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