Il neorealismo purtroppo non è morto, e a Cannes ha dato un sacco di colpi di coda
Lo scandalo degli italiani non premiati a Cannes non è poi tanto scandaloso. Tra i giurati c’era il canadese Xavier Dolan, 26 anni e un Gran Premio della Giuria l’anno scorso per “Mommy”. Il suo primo film – scritto, recitato e girato quando di anni ne aveva 19 – era intitolato “J’ai tué ma mère”: difficile che potesse farsi trascinare dalla tristezza di un orfano in età pensionabile. Presidenti della giuria erano Ethan e Joel Coen, due che hanno la loro vena di follia – per memoria, “Il grande Lebowski”, “Fratello, dove sei?”, “A Serious Man” che comincia in yiddish e continua con l’essere supremo che manda messaggi decifrabili solo con un calco dentario. Due che sono interessati agli artisti e alle loro paturnie, come dimostra “Barton Fink”.
Evidentemente però preferiscono film meglio scritti e più compatti di “Youth – La giovinezza” di Paolo Sorrentino. Per la follia serve un metodo, o perlomeno la solidità del gusto: qui è come stare sull’ottovolante, e anche i fan del film, interrogati su puntuali scivolate estetiche, non trovano di meglio da dire che “Sorrentino è fatto così”.
Ignorati dal Palmarès, gli italiani vincono su un altro fronte. Nell’anno della tripletta tricolore in gara non riescono a scucire neppure una palmetta come migliore attore per Michael Caine. Però hanno convertito la giuria tutta al neorealismo, l’unico cinema italiano davvero da esportazione. Dicono i maligni – come Theodore Roszak che nel 1969 inventò la controcultura, nel suo romanzo “La congiura delle ombre” – per via del fatto che le attrici sotto gli abiti parevano di carne, non barbie plasticose come le americane.
Colpo di coda del neorealismo (che speravamo seppellito, o insomma, tanto lontano da non poter più far danni) è la Palma d’oro a “Dheepan” di Jacques Audiard. Film su un ex tigrotto tamil che emigra in Francia, con una donna che non è sua moglie e una ragazzina che non è sua figlia (la famiglia vera è stata massacrata). Come attore protagonista, vanta un ex tigrotto tamil che da tempo vive in Francia, dove è diventato scrittore. Ovviamente quasi i tutti i dialoghi sono in lingua tamil, con sottotitoli. Aggiungete che il migrante trova lavoro come portinaio nella banlieue dove spadroneggia una banda di criminali, così lo spettatore di buona volontà unisce i puntini: “non si combatte solo nello Sri Lanka, si combatte anche a pochi chilometri dal centro di Parigi”. Aggiungete che la (finta) moglie se ne vuole andare in Inghilterra da una parente – lì gli immigrati vengono trattati meglio che in Francia – e avrete l’identikit di un film acchiappagiurie.
Altro colpo di coda del neorealismo, versione “c’eravamo tanto litigati”, è il premio come migliore attrice a Emmanuelle Bercot, per il film “Mon Roi”, diretto da Maiwenn. Non la finiva di ringraziare, approfittando dell’assenza di Rooney Mara, premiata assieme a lei per “Carol” di Todd Haynes: un film che neorealista non è, e che anzi è tutto lusso calma e voluttà nella New York anni Cinquanta (pensavamo che l’ex aequo tra Xavier Dolan e Jean-Luc Godard l’anno scorso fosse il massimo degli accoppiamenti scellerati, al peggio non c’è limite). Emmanuelle Bercot rieduca un ginocchio malandato e intanto pensa alla sua storia con Vincent Cassel: purtroppo il personaggio risulta così antipatico che facciamo fatica a trepidare per lei (e del resto il personaggio di Cassel – è lui il re del titolo – aveva scritto in fronte “io, come minimo, ti tradirò”).
[**Video_box_2**]Colpo di coda del neorealismo è il premio come migliore attore a Vincent Lindon: in “La loi du marché” di Stephane Brisé comincia da disoccupato, e finisce a lavorare come addetto alla sicurezza di un grande magazzino. Parlando di messaggio, ha commosso per via della pistola puntata alla tempia dello spettatore – “qui si fermano pensionati che rubano perché non possono compranrsi la carne, e commesse che intascano i buoni sconto”. Parlando di cinema, era il meglio scritto tra i tre vincitori francesi, anche se sembrava improvvisato e filmato con la telecamera nascosta.
I francesi avevano cinque film in concorso, non premiarli era fuori discussione, i giurati hanno afferrato al volo il messaggio. Premio speciale al greco Yorgo Lanthinos, per “The Lobster”: “claustrofobico come la situzione attuale della Grecia”, dicono i critici che non guardano il film, ma quel che ci sta dietro. Gran premio all’ungherese Laszlo Nemes per “Il figlio di Saul”, film sull’Olocausto che rende meglio a raccontarlo che a vederlo, colpa di un poeta-attore dalla limitata (eufemismo) gamma espressiva.