La fronda dei cattolici conservatori Usa si smarca dal Papa. L'eccezione Jeb
New York. Tra i cattolici del Partito repubblicano è molto diffusa l’usanza di concepirsi e presentarsi come “innanzitutto repubblicani, poi cattolici”, una specie di rievocazione a parti rovesciate del motto di John Fitzgerald Kennedy: “Non sono il candidato cattolico alla presidenza. Sono il candidato democratico che incidentalmente è anche cattolico”. Quella frase è un bozzetto preparatorio della definizione di “cafeteria catholic” per identificare i cattolici per tradizione che abbandonano senza pensieri gli insegnamenti della chiesa quando si tratta di questioni sociali e politiche. La sinistra americana è piena di cattolici che sostengono aborto e matrimonio gay e non si sentono in dovere di fornire spiegazioni. Per il lato conservatore del cattolicesimo americano trovare argomenti per riconciliare ortodossia di partito e magistero è stato storicamente più agevole, ma Papa Francesco ha cambiato le carte in tavola, anzi ha cambiato la tavola, e ora il senso di essere giunti a un bivio o a un dilemma la cui risoluzione pacifica sarebbe troppo ardita aleggia in superficie. Dall’inizio del pontificato Francesco ha aperto questioni dirimenti fra i politici cattolici americani di destra, mettendo in guardia dal liberismo selvaggio e dalle nefandezze della trickle-down economics, e l’insistenza sui poveri e sull’universo periferico è stato il pretesto per Rush Limbaugh e altri imbonitori urlanti di rubricare il pontefice nella colonna dei pensatori marxisti, amico intimo di Barack Obama, redistributore di ricchezza di dubbia cittadinanza. Colpi tutt’altro che mortali per chi tentava di navigare sul confine fra conservatorismo e dottrina sociale. Anche il “chi sono io per giudicare?” non ha destato scandali eccessivi fra gli esponenti di un partito che per ordine di scuderia parla poco di matrimonio gay, e quando ne parla lo fa per esaltarlo.
La questione si fa più seria ora che Francesco mette sul piatto il riconoscimento della Palestina, faccenda spinosissima per un Congresso che applaude più Netanyahu che Obama, e tocca la questione del climate change con un’enciclica e pure una visita a Capitol Hill. L’immigrazione completa la triade delle issue che mettono in difficoltà i cattolici conservatori. Così è iniziata una tempesta di distinguo e prese di distanza, con il candidato presidenziale Marco Rubio che si premura di ricordare che “il Papa è un pastore della fede, non una figura politica” mentre Rick Santorum, che dei cattolici in battaglia è il campione incontrastato, ammette: “A volte è molto difficile ascoltare il Papa e alcune delle cose che dice a braccio”. Alle ultime elezioni Santorum diceva che gli “viene da vomitare” quando sente la divisione fra ambito religioso e politico formulata da Kennedy, e ora anche a lui tocca esercitarsi in un’operazione analoga. Il risultato è “prima repubblicani e poi cattolici”, con il capo chinato quando il Papa si esprime in materia di fede, e le narici fumanti quando discetta di clima o di economia, e pure – soprattutto al sud – quando trova perfetta compatibilità fra la teoria dell’evoluzione e la dottrina cristiana, cosa che non dev’essere piaciuta al “culture warrior” Bobby Jindal, governatore cattolico della Louisiana che si è battuto per l’insegnamento del creazionismo. Si tratta di implicite concessioni ai cattolici democratici, esclusi dal linguaggio univoco dei valori non negoziabili e accolti nuovamente nel gregge ora che il gap fra l’identità religiosa e quella politica sembra assottigliarsi. Chi non si smarca è invece il cattolico convertito e ispanizzante Jeb Bush, che in tutti i modi magnifica Francesco, “una voce come nessun’altra” che proclama senza posa l’idea morale più sovversiva di sempre: “Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”. La consonanza sul tema dell’immigrazione è soltanto la più evidente, ma il centrismo dell’ex governatore della Florida si sposa su diversi fronti con la sensibilità bergogliana. E’ molto probabile che Jeb paghi un prezzo salato per questa alleanza alle primarie, il trionfo degli estremi, ma sulla lunga distanza i suoi strateghi pensano che la manovra pagherà anche in termini strettamente elettorali.