Ma che riforma, l'unico insegnamento buono è pensare contro
La scuola è impossibile, ma prof e studenti non fatevi rubare la mente
Ho letto il libro di Giulio Ferroni “La scuola impossibile” (Salerno Editrice, 123 pp., 9,90 euro) e sono d’accordo con tutte le sue valutazioni, escluso l’apprezzamento che Ferroni mostra per il desolante libro di Massimo Recalcati “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”, che gli insegnanti (forse bisognosi di eros) si sono buttati a comprare in massa. Sono d’accordo, sono molto più informato sui gomitoli prescrittivi delle riforme (lo ero ben poco) e sono, in conclusione, più allarmato e pessimista di prima.
Alla fine e a pensarci bene, un titolo come “La scuola impossibile” è più realistico che provocatorio. La scuola è ormai considerata qualcosa di superato, una realtà noiosa e vecchia, troppo lenta e lontana dall’audace, intrepido New World che ci aspetta e che è già fra noi. I nuovi riformatori (non parlo di un governo o di un altro, né di questo o di quel ministro) hanno ben ferma nella testa soprattutto una cosa: la scuola ogni tanto bisogna fare finta di riformarla, ma non ci si crede. Non ci si crederà finché non sarà trasformata in un perfetto luogo di lavoro e di svago nello stesso tempo. Un posto indistinguibile dal mondo così com’è.
Dunque, tutto ciò che è reale è razionale. Il cambiamento dell’intera società non solo ha delle innegabili ragioni o cause, ma queste e il loro risultato vanno sempre prese come cosa buona: e quindi una scuola buona vuol dire adeguazione a quanto c’è fuori dalla scuola. Detto ancora più semplicemente: è meglio che dentro la scuola ci sia, “tel quel”, tutto il fuori, mercato, tecnologia, svago.
Dopo mezzo secolo che sento parlare di riforme della scuola, ho smesso di essere un credente (nelle riforme) ma ho anche smesso di essere un serio e informato critico (di questa o quella riforma). Tendo ahimè a vedere il trend epocale (dovrei dire tendenza) e questo parla chiaro. Se c’è una cosa in cui potrei credere sono gli studenti e gli insegnanti, perché la faccenda è seriamente, praticamente, quotidianamente nelle loro mani: sarebbe un bene per tutti, loro compresi, loro per primi, se loro per primi si rendessero conto che è proprio così: sono i protagonisti. Facciano pure manifestazioni e occupazioni. Ma una volta conclusa la festa-protesta, vedano un po’ che cosa fare delle loro giornate di studio e di lavoro, di apprendimento e di insegnamento. Vedano che cosa fare (stavo per dire: “della loro vita”) del tempo che passano e che è loro assegnato e concesso per trasformare il sapere accumulato storicamente in un sapere vivo che li riguarda di nuovo e di persona. Cerchino di salvare, di esercitare i loro cervelli e di prendersi cura di se stessi invece di giocare a fronteggiarsi, studente e insegnante, come ombre cinesi sempre uguali a se stesse e sempre in lotta. Facciano un po’ di autocritica di ruolo. Facciano autocoscienza studiando e imparando qualcosa di buono nelle brevi giornate e nei lunghi mesi di cui è fatto l’anno scolastico.
Andare a scuola non mi è mai piaciuto. Non c’era giorno in cui non volessi essere altrove. Le cose migliori che gli anni di scuola mi hanno lasciato sono i rimorsi e i rimpianti per non aver studiato meglio. Mi hanno lasciato il risentimento per non essere stato messo nelle condizioni di studiare davvero, invece che recitare la parte di chi studia per ricevere i voti che mi permettevano di essere lasciato in pace con le mie letture extrascolastiche.
La scuola non è frustrante per chi non vuole studiare. Lo è molto di più per chi vorrebbe studiare veramente e anche, almeno in parte, a modo suo. Una scuola che non preveda questo autodidattismo naturale, istintivo, che non prenda sul serio la “volontà di sapere”, di capire e di pensare che hanno sia gli studenti che gli insegnanti (purché se ne accorgano!) è una scuola che mente con se stessa, è una farsa.
Hanno qualcosa a che fare i progetti e le leggi di riforma con tutto ciò? Insegnanti e studenti, nel loro insieme, certo, ma ancora di più singolarmente presi, che non vogliano farsi rubare “la vita della mente” da un qualunque ordine burocratico e tecnocratico, possono fare buona scuola qualunque sia il genere di riforme escogitate, per ragioni tutte loro, da governi e ministri. A scuola ci si dovrebbe ribellare disubbidiendo a chiunque ti costringa, ti induca a studiare o insegnare male. Si tratta di una ribellione “molecolare”, quotidiana, che studenti e insegnanti possono praticare insieme giorno per giorno, per la semplice ragione che è loro interesse comune.
Se per circa vent’anni ho insegnato con passione e cercando ogni volta un metodo adatto, è stato perché insegnavo “contro la scuola”, affinché non producesse frustrazione e indifferenza in me e in chi mi ascoltava. La noia dell’insegnante si trasmette subito. E’ terribilmente, potentemente contagiosa. Se lo studente non ha la sensazione che chi insegna sta anche lui imparando qualcosa, perde subito la voglia di imparare e si rivolge altrove per avere soddisfazioni mentali.
Nelle prime pagine del suo appassionato, enciclopedico pamphlet, Ferroni scrive: “nell’illusione riformistica, la scuola è andata sempre più precipitando: e sempre più mi sono andato convincendo che il destino della scuola è legato alla passione degli insegnanti”. E poco più avanti: “mi sono reso sempre più conto del fatto che riflettere sulla scuola porta inevitabilmente lontano da ogni possibile specialismo: equivale a pensare al destino del proprio paese, dell’umanità, del mondo (…) E’ qualcosa di tremendamente globale”. Se si parla di scuola parlando solo di scuola, da specialisti della scuola, si finisce per non parlare di niente. La politica della scuola, la sola che conti, deve essere anche una “politica dell’esperienza” e un’ “ecologia della mente”.
Qui la mia predica finisce, inutile come tutte le prediche. Ma mi è davvero difficile immaginare una scuola che funzioni, anzi che sopravviva con adolescenti e perfino bambini smartphone addicted, drogati di aggeggi telematici. Gli ingenui che hanno creduto che la tecnologia digitale, come altre precedenti, fosse solo un mezzo, né buono né cattivo, che dipende dall’uso che se ne fa, forse dovrebbero riflettere. E’ la tecnologia che usa noi, non il contrario. Ci modella, “ci cambia la vita”, il cervello, la psiche, il sistema nervoso, la volontà, l’attenzione, la memoria e tutte le venerande facoltà mentali che venivano enumerate una volta. La scuola sarà impossibile (inutile, impotente) per una massa di giovani dotati 24 ore su 24 di macchinette palmari che contengono il mondo, piccoli buchi neri a buon mercato in cui la società si concentra, precipita e sparisce. Parlate con loro. A ogni obiezione critica, anche i più intelligenti rispondono: “Non è giusto ma è così” oppure “Internet è la società”.
La tecnologia non va certo demonizzata (io però la demonizzo). Non si tratta di tecnologia, ma di capitalismo digitale. Il capitalismo ha vinto da quando esiste e continuerà a vincere producendo e vendendo tecnologie sempre più “comode” e “veloci”. Alla Grande Macchina nessuno ha resistito e nessuno resisterà. La cultura è sempre più al suo servizio. Tutto è al suo servizio.
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