Dante contro Putin
Ogni giorno porta una rosa bianca sulla tomba di un uomo che non ha mai visto, ma che ha conosciuto e ama. Olga Sedakova è tra le maggiori poetesse viventi, non solo della letteratura russa. Sessantacinque anni di pensieri, parole e opere senza omissioni ne fanno una delle coscienze più nitide del grande polmone dell’Europa dell’est. Per qualche settimana si è trasferita in Italia, paese con cui ha forti legami (grazie a quello con l’associazione Russia cristiana ha pubblicato per la Casa di Matriona la sua “Apologia della ragione” nel 2009): ha scelto Ravenna, antica capitale dell’impero e giunzione storica sull’oriente, per dedicarsi agli studi di Dante Alighieri, che nella città è sepolto. Il lungo lavoro culminerà con un’impresa dal respiro tipicamente russo applicato al più “occidentale” dei monumenti letterari: la traduzione della Divina Commedia. La chiave per comprendere la fragile roccia che è questa donna è l’abbraccio tra est e ovest, in un mondo che grida l’esatto contrario: alla nuova guerra fredda la Sedakova oppone il calore sorprendente e inevitabile dell’incontro tra il ghibellin fuggiasco e lei stessa, un’ortodossa critica con la sua chiesa e amorosamente abbarbicata alla possibilità dell’unità dei cristiani. E se mille anni, dice il salmo, sono come un turno di guardia nella notte, i sette secoli che separano i due poeti durano, in fondo, ancora meno.
“Perché Ravenna?”, risponde al Foglio che la incontra in uno dei suoi giorni romagnoli: “L’ultimo rifugio del poeta esule, la città dove scrisse i più alti canti del suo poema, e dove è sepolto: che altro spazio potrebbe avvicinarmi di più al mondo di Dante? Non sapevo però che Ravenna fosse una vera capitale della memoria dantesca. Qui si svolgono attività scientifiche e didattiche, si organizzano concorsi nazionali per gli studenti, festival… E poi non immaginavo i rapporti tra i mosaici ravennati e le immagini della Commedia, a cominciare dal Paradiso Terrestre”. Dante e la Russia non sono il più facile dei binomi, anche perché “nelle nostre scuole si insegna solo la letteratura russa. Dante si studia all’università, nelle facoltà di Lettere. Ma il nostro lettore tipo lo conosce abbastanza bene, e a maggior ragione lo conoscono i poeti e gli scrittori: per esempio, Solzenicyn sceglie il titolo dantesco “Nel cerchio primo” per il suo romanzo dedicato all’inferno del GULag (“Il primo cerchio”, Mondadori 1968, ndr). La Divina Commedia è stata tradotta in russo più di una volta. La versione di Michail Lozinskij (da noi considerata classica) fu realizzata negli anni della Seconda guerra mondiale. Lozinskij è riuscito a fare una cosa impossibile: ha riprodotto tutta la struttura del verso dantesco, la “terza rima”, e ha comunque mantenuto la maggior parte del contenuto. L’unica cosa che manca è la viva voce di Dante. Il testo russo della Commedia sa di museo, lo stile è troppo classicista e “scorrevole”. Non si percepiscono la velocità e l’acutezza del pensiero e delle immagini dantesche, quel dinamismo catastrofico che ispirava Mandelstam”.
Qui nasce il “compito” immane che la Sedakova si è assegnata, in fondo per amore: come gli unici compiti che si fanno senza lamenti. “Quando, parlando di Dante, mi occorre una citazione, non posso usare la traduzione di Lozinskij: ogni volta cerco di tradurre il brano letteralmente, così che la voce di Dante diventi più comprensibile al lettore russo. Penso che questo sia il compito più attuale: far sentire Dante in russo senza perderne la voce personale. L’arte della traduzione è l’arte di perdere. Nel caso di Dante preferisco perdere la forma in versi per conservare il tono e le sfumature del senso. A proposito di senso: per il lettore russo le note sono indispensabili. Tutti i fondamenti dell’universo dantesco – teologici, filosofici… – sono sconosciuti da noi. Sceglierò le note migliori italiane per tradurre anche quelle. Non posso ancora prevedere i tempi del mio lavoro: la difficoltà principale consiste nel riprodurre la concisione, la lapidarietà del parlare dantesco. L’esattezza latina della sua parola. La traduzione deve essere fedele a questo. Non vorrei raccontare “a senso” ciò che invece Dante dice direttamente: lui non ha paura di essere poco comprensibile. Non vorrei usare dieci parole dove lui ne usa tre. E la lingua russa mi ‘resiste’”.
A chi prova a rilevare la felice inattualità di ritradurre un capolavoro eterno, la poetessa replica con avvertibile durezza che si scioglie in apologia: “Sarebbe troppo facile (e lo fanno in tanti!) dire che la civiltà attuale non lascia nessuno spazio per la poesia. Dire che il nostro è un mondo troppo prosaico, pragmatico, frettoloso, tecnologico… Ma lo spazio non è una cosa così semplice. Non è una stanza in un palazzo della civiltà dalla quale si caccia via il poeta per mettere al suo posto un designer. E’ il poeta che crea lo spazio per la poesia. Se il poeta dice le cose nuove ed eterne che il cuore umano vuole sentire, la sua opera crea e organizza lo spazio per la poesia. I poeti non devono lamentarsi per la negligenza dei contemporanei. Sarebbe meglio cercassero di scrivere qualcosa di grande. E vede, noi russi abbiamo dei poeti grandi. Però il fenomeno di Dante consiste non soltanto nel suo genio personale, ma anche nel genio del momento storico nel quale creava. Mai più l’universo della cultura umana è stato così intero e centripeto. Mandelstam disse che tutti i poeti europei dei secoli successivi sono come frammenti, schegge del mondo dantesco. Ma il problema non sta nei poeti, quanto nella vita stessa. La vita si è spezzata: il secolare si è staccato dal religioso, l’estetico dall’etico, lo scientifico dall’artistico, il privato dal comune, l’immagine dal pensiero, il simbolico dal reale. Ciò che risulta è il mondo frammentato. L’uomo (e con lui il poeta) si sente un frammento, un frantume. Nel Novecento europeo (e russo) i grandi poeti hanno sentito nostalgia per una integrità dell’universo. E tutti i poeti che sentivano questo impeto – Rilke, Eliot, Claudel, Peguy, Mandelstam – hanno trovato il loro modello in Dante. Dopo i secoli dell’arte autonoma è risorto il tipo del poeta-teologo. Certo, l’integrità - e, per così dire, la centralità - trovano forme nuove nella poesia moderna, ma la sorgente di questo impulso è sempre Dante”. Una sorgente a cui si abbevera senza sosta anche lei: “Mi sono messa a imparare l’italiano solo per leggere Dante in originale. Così fecero i nostri grandi poeti: Puskin, la Achmatova, Mandelstam stesso. Leggevano Dante in originale. Per i poeti la Commedia è il testo sacro, un analogo – mutatis mutandis – della Scrittura. La prima lezione di Dante è stata per me la necessità della grandezza. La vita umana senza il grande vale poco. E la sua seconda lezione è stata la necessità dello sforzo: lo sforzo etico, intellettuale – compreso il pensiero politico”.
La politica. Olga Sedakova non ha mai staccato l’opera letteraria da un giudizio storico puntuale e spesso feroce sul suo paese. Né lo fa oggi, mentre il mondo rovescia sul presente il confronto drammatico tra Russia e occidente: anzi, la poesia sta come una sentinella su questa linea di confine. “Il corso ufficiale del nostro stato vuole mettere a confronto la Russia (sovrana e singolare) e l’occidente, cioè tutta la civiltà cristiana (o post-cristiana) e umanistica. Questo è un disastro. La Russia per me è sempre stata una parte del mondo europeo, una parte della civiltà cristiana, con tutta la sua singolarità (ma quale popolo europeo non è “singolo”?). La cortina di ferro alzata nei tempi di Gorbaciov sta calando di nuovo. La propaganda costruisce l’immagine caricaturale di un’Europa ridotta ai matrimoni omosessuali, al libertinaggio morale senza confini, eccetera. Il mio lavoro con Dante è in un certo senso un atto di resistenza. Voglio che in Russia sia conosciuta l’Europa che amo: l’Europa geniale, dei grandi pensatori e artisti, dei santi e dei filantropi. L’Europa dove la dignità della persona umana è indiscutibile. Nel progetto della “Russia sovrana” di Putin sta al centro lo stato, che acquista valore sacrale. E tutti gli idoli chiedono sacrifici. All’idolo dello stato si offre il sacrificio della vita umana. Nel suo discorso inaugurale del 2012 Putin ha citato il verso del “Borodino” (il poema di Lermontov dedicato alla guerra con Napoleone nel 1812): “Moriamo insieme per Mosca!”. Questo programma ha proposto al popolo: morire insieme. Ma perché? – pensavo io – chi ci attacca?”.
Per questo, nel 2011, la Sedakova è in piazza per i cosiddetti “moti di Mosca” ed è tra chi cammina nella “passeggiata degli scrittori”, uno dei germi più interessanti della società russa: che qui, forse, definire “civile” non ha sapore di ridicolo. “Siamo in una nuova epoca”, dice adesso. “Il suo inizio si può datare con la terza “intronizzazione” di Putin, appunto nel maggio 2012. La presa della Crimea, la guerra nel Donbass, sono manifestazioni di un nuovo progetto generale per la Russia: un progetto che definirei revanscista e ideologico. Si cerca di tornare nel passato, e non ai tempi di Breznev, ma a quelli prima di Krushev e della sua “destalinizzazione”. Stalin è di nuovo considerato “pater patriae”, l’eroe nazionale. Ci sono i suoi ritratti ovunque, soprattutto in rapporto all’anniversario della vittoria (1945): è stato lui, il grande duce, ad aver vinto la guerra! E in tutto questo noi abbiamo i libri di Grossman, Solzenicyn, Astafiev! Sono davvero disperata. Con Stalin sta crescendo la nostalgia per uno stato stalinista, totalitario, dove tutti i dissidenti sono bollati come nemici del popolo, traditori degli interessi del paese. Così noi che partecipammo ai ‘moti bianchi’ siamo ora ‘agenti pagati dagli Stati Uniti’. Le fondazioni indipendenti, come Memorial (che custodisce la memoria di tutte le vittime del terrore stalinista), sono state dichiarate ‘agenti dell’influenza straniera’”. L’idea nazionale che arriva oggi dal Cremlino non è più quella comunista, però. “Si chiama ‘patriottismo’, e ognuno deve essere un ‘vero patriota’. Ogni giudizio critico viene trattato come “russofobo” e censurato. Il concetto del “mondo russo” (secondo il modello di Pax romana) ha tutti i tratti dell’imperialismo militante, e testimonia lo sforzo - pazzesco, davvero - di restaurare l’Unione Sovietica. Un’utopia retrograda, pericolosa non soltanto per gli Stati vicini, ex-sovietici, ma per tutto il mondo. Il potere non permette a nessuno di dialogare. L’ultima zona libera rimasta è internet. È diventato un analogo delle famose “cucine” dei dissidenti dei tempi sovietici. La cosa più triste per me, che sono ortodossa fin dai tempi dell’“ateismo militante”, è la posizione della nostra chiesa. Mi fa venire in mente l’Action Française e i movimenti di quel tipo. Si sentono abitualmente dai rappresentanti ufficiali della chiesa cose incompatibili con la dottrina cristiana, piene di odio per l’Occidente, per la nostra intelligenza, per le norme e le leggi della civiltà moderna”. La creatività della poesia sfodera un’immagine che si incastra nella prosa del dialogo: “È stato coniato il termine “tiranti spirituali”: il sistema dei divieti e dei doveri obbligatori per tutti. La chiesa si propone come garante di questi “tiranti”. Il primo è il patriottismo, e non la fedeltà a Cristo. E questo dopo tutti gli innumerevoli martiri uccisi per la fede nei tempi sovietici! Mi meravigliano i tanti europei pronti a prendere questo “moralismo” per un normale conservatorismo. È un radicalismo di tipo islamico, che non ha nulla a che vedere con le norme tradizionali. L’odio irrazionale della modernità, e non l’amore per i valori tradizionali, sta al cuore di questo movimento. L’ultima manifestazione della resistenza (a cui ho partecipato) è stato il lutto civile a Mosca dopo l’assassinio di Boris Nemtsov. C’era un mare di fiori! Il nostro Parlamento non ha commemorato Nemtsov neppure con un minuto di raccoglimento (ed era membro del governo pochi anni fa) e il nostro Patriarca non ha detto nessuna parola in pubblico sull’assassinio scandaloso (e Nemtsov è stato insignito dalla chiesa alcuni anni fa). Che vergogna. La battaglia dei fiori continua anche oggi. Ogni giorno la gente porta fiori al ponte dove Nemtsov è stato ucciso, e ogni notte i poliziotti li portano via. Questa battaglia simbolica rimane per me un segno che non tutto è morto nella Russia di Putin”.
[**Video_box_2**]Russa nel profondo dunque, sfinita dal suo governo. E ortodossa atipica, con un vigoroso amore per i cristiani tutti: “Custodisco profondissima reverenza per Giovanni Paolo II, ora santo. Chiunque ha avuto la possibilità di vederlo da vicino ha sentito questo soffio di santità evidente in lui. Si percepiva quasi fisicamente la sua fede, così giovane e poetica, il suo amore e il suo interesse profondo per ciascuno, il suo coraggio. Senza di lui non si potrebbe potuto nemmeno immaginare il crollo del sistema comunista. Ma non apprezzo solamente la sua passione per l’unità cristiana, o la sua profonda e amante comprensione della spiritualità delle chiese orientali: apprezzo il suo grande amore per la cultura, per il genio creativo dell’essere umano, per la poesia, l’arte, la filosofia. E il suo coraggio sulla storia: non ha avuto paura di riconoscere alcuni sbagli tragici della chiesa, e chiedere perdono. Mi spiace tanto che tutti i suoi sforzi per ristabilire pace e fraternità con la chiesa russa ortodossa non abbiano avuto risposte da parte nostra. Il suo amore per la cultura russa, per la ‘bellezza dell’anima russa’, come ha detto, non è stato da noi contraccambiato. Penso che Papa Francesco in tanti aspetti continui la linea di Giovanni Paolo II. Wojtyla disse che da ragazzo aveva scelto di essere dalla parte dei poveri e degli umiliati”.
La bellezza, il terrore. Come recita il motto di Terenzio, non c’è nulla di umano che la Sedakova reputi tra i temi da non affrontare. Non c’è, nel suo pensiero, una cesura tra la storia e la cronaca: tanto più oggi che il fondamentalismo diventa una sfida non più teorica alla libertà di pensiero qui e ora, nel cuore delle società occidentali: “Sì, la minaccia dell’islamismo radicale diventa più e più evidente. E’ già non solo la minaccia, ma la realtà dei nostri giorni. Viviamo nei tempi di una nuova guerra mondiale: una guerra strana, senza precedenti, senza regole, senza truppe regolari. Il suo fronte è dappertutto. L’Europa – e tutto il mondo libero – sono nella situazione di una fortezza attaccata da fuori e dal di dentro. Cosa fare in una situazione così? Il rischio è doppio: quello di non rispondere adeguatamente, e quello di diventare simili al nemico, cioè trasformarsi una società totalmente controllata, in uno stato d’emergenza in cui le leggi non funzionano più. La prima cosa necessaria, penso, sarà renderci conto della situazione. Prenderla sul serio, non nasconderla a se stessi e agli altri in favore della political correctness: ‘Ma no, non sono nostri nemici, sono poveri, persone traumatizzate’, e così via. Ma se loro stessi ci dicono: ‘Siamo nemici! Siamo pronti a morire e a uccidere per vincervi!’. E si deve riflettere sui motivi di questa guerra nuova che, a mio parere, ha motivazioni non economiche ma ideologiche. Dobbiamo chiederci: cosa vogliamo difendere?”.