Una scena di "Jurassic world", il film di Colin Trevorrow

Chi vince la guerra tra lo squalo e T-Rex

Mariarosa Mancuso
“Piacciono perché sono grandi, feroci, estinti”. Lo disse Stephen Jay Gould, paleontologo, a chi lo interrogava sul fascino dei dinosauri. Piacciono perché sono fatti dannatamente bene: da “Jurassic Park” (1993) si usciva commentando “sembrano veri”, e nessuno riusciva a calcolare l’assurdità della frase.

“Piacciono perché sono grandi, feroci, estinti”. Lo disse Stephen Jay Gould, paleontologo, a chi lo interrogava sul fascino dei dinosauri. Piacciono perché sono fatti dannatamente bene: da “Jurassic Park” (1993) si usciva commentando “sembrano veri”, e nessuno riusciva a calcolare l’assurdità della frase. Da “Jurassic World” si esce con la voglia di ammirare in tutto il suo splendore l’Indominus rex (di nascosto da chi ancora non ha visto il film: è femmina e furbissima).

 

Colin Trevorrow – 38 anni a settembre, fiero regista di un film che ha incassato nella prima settimana seicento milioni di dollari, il budget era attorno ai 150 – ha imparato la lezione del maestro. Meno il mostro si vede, più fa paura. Fa testo “Lo squalo”, girato quarant’anni fa. Il film che cambiò per sempre l’estate americana. Non fu applicata ai dinosauri del 1993: la Industrial Light & Magic di George Lucas doveva mostrare agli spettatori i prodigi della computer graphic (comunque, un po’ della lezione restava sullo sfondo: i dinosauri erbivori erbivori e paciosi sono più in luce dei dinosauri carnivori e feroci).

 

Indominus rex – la belle sans merci, che a differenza dei velociraptor addestrati da Chris Pratt non ha un nome, potrebbe lamentarsene come la creatura con il barone Frankenstein – appare pochissimo, il più delle volte mimetizzata con il fogliame. Vediamo invece benissimo gli effetti dell’ingegneria genetica che ha pasticciato oltre misura: uccide anche quando non ha più fame, la sciagurata. Nel primo film, a combinare il guaio era il Dna di certe ranocchie ermafrodite (per prudenza, avevano popolato con sole femmine il parco preistorico di Isla Nublar).

 

Neanche lo squalo di Steven Spielberg aveva un nome. Sul set però lo chiamavano “Bruce”: valeva per i tre pescecani meccanici utilizzati quando proprio era necessario vedere la dentatura. Non funzionavano benissimo, specialmente se immersi in acqua salata. Ma il regista non voleva saperne di girare in vasca, pretendeva l’Oceano. Fu una decisione disastrosa, ammette con il senno di poi. I mostri meccanici affondavano, anche: “Splash, flop, flop, flop, flop”, ricorda un testimone. Rischiò di affondare anche la barca usata per la caccia allo squalo.

 

[**Video_box_2**]Tutto quel che sul set poteva andar male andò male. Un articolo su Hitfix ricorda “I dieci momenti che terrorizzarono i produttori”. Serviva una controfigura per quando Richard Dreyfuss sta nella gabbia circondato da squali. Meglio se un nano, per far sembrare i pescecani più minacciosi. Arrivò Carl Rizzo, che aveva la giusta altezza ma non sapeva nuotare: la sua specialità era andare a cavallo, in “Gran Premio” lo avevano vestito e pettinato da Elizabeth Taylor. Naturalmente non gli potevano mettere sulla schiena bombole di grandezza normale, il poveretto si trovò in difficoltà. In numeri: “Lo squalo” aveva un budget di tre milioni e mezzo, saliti a otto. I giorni di lavorazione da 55 giorni salirono a 159. Da non rifare a casa, se non siete Spielberg.

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