Consigli al guru Jovanotti per non trasformarsi nell'Umberto Eco del pop
Chi ha detto: “Non c’è nulla di male a essere pop”? Risposta numero 1: Umberto Eco, quando studiava Superman e i Peanuts (certo non oggi: su Twitter e sui social network si leggono tante idiozie, ma gli intellettuali non stanno indietro, quanto a discorsi da bar, e non sempre hanno l’aggravante dell’ubriachezza). Risposta numero 2: un critico noto per le sue lodi ai film rigorosi e punitivi, un attimo prima di mettere mano a un commosso ricordo di Laura Antonelli in calze nere. Risposta numero 3: un filosofo che ha accarezzato tutte le virgole di Hegel, prima di dare alle stampe “La fenomenologia di Peppa Pig”.
Macché, lo ha detto Jovanotti, in un’intervista uscita ieri sulla Stampa. Sorprendente notizia: finora eravamo convinti che Jovanotti – assieme a molte altre cose per cui vale la pena di vivere – fosse il pop (e tutto questo dai tempi non sospetti di “1, 2, 3 casino” o “E’ qui la festa?”). Poi si cresce, per carità. Si scrivono tante fantastiche canzoni, si fanno tanti affollatissimi concerti, si lavora parecchio per farsi canticchiare da più di una generazione. Non per questo però si smette di essere pop, categoria nobilissima anche senza bisogno di citare Andy Warhol. Un genio, ma anche un po’ scaduto. Dalla Coca-Cola son passati cinquant’anni, e il pop che secondo Jovanotti è “ribellione, desiderio, sesso e divertimento” – fateci caso: la traduzione alta delle parole d’ordine a cui deve i suoi primi successi – ormai sta nei musei.
Eravamo convinti che Jovanotti fosse nato pop. E pure fiero di esserlo. Ci siamo rimasti male. Soprattutto, non abbiamo capito dove credeva di stare fino all’altro ieri, prima di annunciare la sua conversione verso il pop. Guru? Faro nella notte? Supplente di Adriano Celentano? Pacifista e santo? Celebratissimo autore di un libro intitolato “Il grande Boh”? Non sapevamo che fosse schierato con certi babbioni che quando non fanno sbadigliare mettono il prurito alle mani (noi pacifisti non siamo mai stati). Perché non sanno di cosa parlano, e non sanno quel che dicono.
“Mi interessa la bambinizzazione della società”, sentenzia Jovanotti nella stessa intervista, e aggiunge che assieme alla figlia attende con trepidazione il prossimo film Pixar. C’è da chiedersi se l’abbia mai visto, un film Pixar. Ne avesse visto uno, a cominciare dal primo “Toy Story”, anno 1995, sosterrebbe il contrario: sono film che trasudano intelligenza. Molta più intelligenza di quanta ne possa vantare l’intero cinema italiano, per non parlare dell’atroce documentario “Louisiana” di Roberto Minervini, citato da Jovanotti come ispirazione per lo show (si spera di no, per il bene degli spettatori: una donna incinta prima si buca e poi fa la lap dance).
[**Video_box_2**]La Pixar gira film per adulti intelligenti, e fa niente se sono a disegni animati (gli adulti intelligenti ormai sanno che i disegni animati non sono più soltanto per bimbi). Spiega perfino “La Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, nascondendola in un film di supereroi come “Gli incredibili”. Alla fine di “Wall-E” ripercorre la storia dell’arte, dalle pitture rupestri alla pop art. Il prossimo – “Inside/Out” – ha una sua interessante teoria su come funziona il cervello, per chi sa guardare al di là dei pupazzetti.