I fricchettoni hanno fatto di Berkeley un “campus della rieducazione”
Roma. Il Free Speech Movement nacque in Sproul Plaza, la piazza principale di Berkeley, nel 1964. Partì dal campus più libero d’America l’ondata di contestazione che si riversò in Europa. Adesso la facoltà di Berkeley vara una sorta di “polizia del linguaggio”, come la definisce il Daily Beast. A cinquant’anni dalla nascita del movimento per la libertà di parola alla University of California, i funzionari del campus hanno chiesto a docenti e studenti di eliminare espressioni parole potenzialmente offensive dal loro vocabolario. Greg Lukianoff, presidente della Foundation for Individual Rights in Education, definisce così il paradosso: va bene il free speech, ma a patto che ti faccia sentire “safe and respected”.
Vietato allora dire che “l’America è un melting pot”, perché l’espressione usata per la prima volta dallo scrittore ebreo Israel Zangwill in un romanzo del 1892, “I figli del ghetto”, è in odore di assimilazione etnica. A Berkeley, l’amministrazione ha distribuito un volantino dal titolo “Riconoscere le microaggressioni e i messaggi che inviano”. Elenca decine di esempi di dichiarazioni banali e razziste che non dovranno essere più usate nel campus. “Da dove vieni?”. Non si può chiedere, perché manda il messaggio che l’interlocutore non sia un vero americano. Oppure, rivolto a un rappresentante delle minoranze: “Wow! Come sei diventato così bravo in matematica?”. Sbagliato, perché significa dire che un afroamericano ha un quoziente intellettivo più basso. Errore rosso per l’espressione “non sono razzista, ho molti amici neri” e persino dire che “l’America è la terra delle opportunità”, implica che uno studente delle minoranze deve lavorare più sodo per raggiungere il successo. Dire che “c’è una sola razza, la razza umana” è offensivo perché nega “la storia razziale di una persona”. Altri esempi di microaggressioni linguistiche: “Una persona che chiede un asiatico o a un latino di insegnare loro delle parole nella lingua madre”. Oppure: “Continuare a pronunciare male i nomi degli studenti dopo che questi li avevano corretti e non voler imparare la pronuncia di un nome basato non in lingua inglese”. E per chi non fosse sazio di cotanta idiozia: “Alzare la voce o parlare lentamente quando si affronta uno studente cieco”. “Mostrarsi sorpresi quando una donna risulta essere lesbica”. Sia mai.
Ma non c’è soltanto Berkeley. Heather Mac Donald, autrice di “The burden of bad ideas”, sul magazine City Journal l’ha chiamata “vittimologia accademica”. Alcuni mesi fa, la City University di New York ha messo al bando anche i già neutri “Mr.” e “Mrs.”. Accademici e membri dello staff dell’ateneo sono invitati a non utilizzare i saluti di genere in corrispondenza con gli studenti-e di utilizzare invece il nome completo di uno studente, in nome dello “sforzo continuo per assicurare un ambiente accogliente e inclusivo di genere”. Perché le donne dovrebbero dire se sono sposate o no? E che ne sarebbe dei trans?
[**Video_box_2**]In uno studio su 392 campus, la Fondazione per i diritti individuali in materia di istruzione rivela che il 65 per cento dei college americani hanno normative che violano il diritto alla libertà di parola. Il codice etico di Princeton non cita più il termine “stupro”. Adesso si chiama “penetrazione non consensuale”. E il Dartmouth College ha abolito la parola “fiesta” perché considerata offensiva verso gli studenti ispanici. Ci sono anche campus che hanno ristretto la libertà di espressione a certe zone della facoltà. La Colorado Mesa University l’ha limitata al “patio adiacente alla porta ovest del Centro Universitario”.
Glenn Beck ha ragione, andrebbero ribattezzati “i campus di rieducazione”. Ovvero come trasformare uno studente in un deficiente.