Obbligo e verità
Siccome i cinema erano ancora chiusi, martedì alle tre del pomeriggio sono andato ad ascoltare un dibattito sull’obbligatorietà dell’azione penale. Suona quasi perverso, lo so, ma ognuno ha le sue stravaganze, e poi la locandina pareva quella di un film d’azione fantascientifico o di un incontro di wrestling: due teste metalliche giganti che si fronteggiano (da una copertina dei Pink Floyd) e ai lati le squadre pronte ad azzuffarsi, tre magistrati contro tre avvocati, l’Anm contro la Camera penale di Roma. Inutile dire che la cosa è stata meno spettacolare e sanguinaria di quanto sperassi. L’Aula Europa della Corte d’Appello avrà pure un nome da multisala, ma non c’è il dolby surround, non c’è il 3D, di popcorn non se ne parla, senza contare che gli uomini di legge non si sfidano usando pistole laser ma rinfacciandosi articoli del codice, norme costituzionali, circolari del Csm.
Da profano che ha del diritto un’idea tutta letteraria, rischiavo di scivolare nel sonno in quel brusio di art. 112, 101 secondo comma, 131 bis, 405 cpp e altre cabale numerologiche. Ma poi uno degli oratori, un magistrato dall’aria cordiale e curiale, ha tirato fuori una formula che mi ha riscosso dall’imbambolamento: “Etsi Deus non daretur”. Reminiscenze di liceo classico, Ugo Grozio, giusnaturalismo: anche se non ci fosse Dio, il diritto naturale sarebbe comunque fondato sulla razionalità umana. Sennonché il magistrato in questione, con quel Deus, si riferiva proprio alla divina obbligatorietà: anche se non fosse inscritta nella Costituzione, argomentava, il sistema ne esigerebbe l’esistenza. Dalla soggezione di chi capisce poco mi sono ritrovato con gli occhi vispi e il sorriso a mezza bocca di chi ha capito tutto: ero il bambino di Andersen, e avevo appena visto i vestiti nuovi del Procuratore. Altro che film d’azione, quello era un dibattito teologico, più esattamente una disputatio scolastica medievale sui modi per provare l’esistenza di qualcosa che – proprio come gli abiti della fiaba – non è immediatamente percepibile ai sensi e all’intelletto. Esiste l’obbligatorietà, se non come articolo di fede? A prima vista si direbbe di no, è evidente che le Procure scelgono i reati da perseguire secondo criteri più o meno arbitrari. Ma così dicendo, assicurava il magistrato cordiale e curiale, si cade in una contraddizione filosofica che consiste nell’opporre l’essere al dover essere, quando si tratterebbe piuttosto di adeguare il primo alle ascetiche esigenze del secondo.
I tre dottori dell’Anm elencavano poi i vincoli entro i quali deve avvenire questo adeguamento: il tempo tiranno, le risorse scarse, i carichi di lavoro eccessivi, le necessità organizzative degli uffici giudiziari, l’insopprimibile elemento di valutazione, il bisogno di stabilire delle priorità. A quel punto lo stolto, l’eterno stolto del Salmo 14 che dice in cuor suo: “Dio non esiste”, è tentato di dire che non esiste neppure l’obbligatorietà; e che per definizione non può esistere, se non in un empireo dove schiere di magistrati incorporei e immortali, ciascuno nel grado di giurisdizione che l’Onnipotente gli ha assegnato, dai serafini della Cassazione giù fino agli angeli tirocinanti, esaminano notte e giorno tutti i fascicoli generati dall’ombra lunga del peccato originale.
[**Video_box_2**]L’obbligatorietà è dunque un sogno da metafisici? Al contrario, obiettavano i maestri delle scuole sottili: tutti quei vincoli, lungi dal rendere chimerico il principio, devono essere diretti a dargli piena attuazione. Un altro dei tre dottori arrivava a postulare una “discrezionalità razionale” che non sarebbe in conflitto con l’obbligatorietà, e a quel punto mi sono ritrovato a sillabare, con Tertulliano: “Credo quia absurdum”. Alla prossima disputa scolastica mi aspetto di trovare un magistrato allievo di Anselmo d’Aosta pronto a sostenere che, avendo l’idea di obbligatorietà tutte le perfezioni pensabili, deve necessariamente possedere anche l’esistenza. Io però dico che farebbero meglio a chiedersi quanti imputati possono stare sulla capocchia di uno spillo.