“Il sangue dei nostri luoghi”. L'Italia migliore narrata da Edoardo Nesi
Una delle più belle definizioni dell’estate l’ha data Cesare Pavese: “La giornata era breve ma gli anni non passavano mai”. Per Edoardo Nesi l’Italia tutta ha davvero conosciuto, nella sua memoria collettiva, un simile momento dorato: gli anni Settanta. Il suo nuovo romanzo “L’estate infinita” si apre proprio con una spiaggia d’agosto, puntellata di ombrelloni, che, al pari delle luci notturne delle metropoli, sono come tanti vessilli del “battito immenso di tutti quei cuori forti e saldi… le parole vane e importantissime e le grida e gli strilli dei bambini e i fiati e le bugie e le vanaglorie e le preghiere e le promesse e i sussurri e i sospiri e le dichiarazioni d’amore che danno voce a quei giorni intrepidi”.
Un periodo in cui i “marocchini” erano i meridionali che davano sangue e sonno all’economia del centro-nord, in cui la nascita di una fabbrica si carica della devozione, delle ferite, dei sogni, dei sacrifici d’una vita, come un palazzo, o un tempio e in cui le vecchie generazioni guardano con diffidenza e incredula ammirazione ai giovani che vogliono dare un salto quantico alle loro vite: “Dev’essere così che si diventa vecchi: all’improvviso, al tramonto, in mezzo a un campo, strattonati da un futuro invisibile, investiti da un entusiasmo audace e infantile, impossibile da condividere”. Sul tuo profilo Twitter si legge “Prato, sempre Prato” – sembra un sorriso, come per una maledizione inestirpabile, ma anche un’espressione di forte appartenenza. Gli chiediamo se anche lui pensi, come Flannery O’Connor, che essere scrittore vuol dire anzitutto esprimere la propria regione, trovare quella finestra che permetta uno sguardo particolare ma non parziale? “E’ certamente una delle mie autrici preferite, e ‘Wise Blood’ m’è sempre parso un libro formidabile, a partire dal titolo, con quel cantare l’importanza del sangue, e dunque – a me è sempre sembrato dir così – del luogo. Tra l’altro, pur non essendoci purtroppo mai stato, sono un amante del sud degli Stati Uniti, e mi figuro spesso di andare a svernarci, un giorno, da vecchio, in Alabama o in Georgia, vestito d’una salopette di jeans, se per me le cose si mettessero male. Detto questo, lo sguardo dev’essere – sempre – parziale. Non può accontentarsi d’essere particolare. Parzialissimo, bisogna che sia. Vanno amati e raccontati, i nostri posti. Questo vuol dire ‘Prato, sempre Prato’”. C’è un dettaglio, un evento, un personaggio che ha innescato la narrazione? “Sentivo da tempo il bisogno di spiegare come fosse avviata, quella storia poi finita così male che avevo raccontato in ‘L’età dell’oro’ e in ‘Storia della mia gente’. A illustrarne solo il declino, mi pareva di fare un torto non solo al mondo della piccola industria tradita o al me stesso ragazzo, ma anche al mio intento narrativo iniziale, quello di raccontare una parte d’Italia molto lontana dalle mappe delle consuete ambientazioni letterarie, e per questo tralasciata o sbertucciata”. Lewis scrisse “Non credo molto al Rinascimento: più mi sprofondo nelle documentazioni, e meno trovo tracce di quell’estasi primaverile. Mi viene persino il sospetto che ciascuno di noi sia portato a ricordare e proiettare il proprio rinascimento personale”. Era su questo doppio binario che volevi raccontare “i favolosi” anni Settanta? “Bellissima, l’estasi primaverile, ma non sono d’accordo. Le cose sono cambiate, e in peggio. L’Italia era davvero mille volte meglio, negli anni Settanta, se si considera il benessere l’elemento fondamentale e indispensabile per la felicità dei cittadini. Non tutti erano felici, certo. Non era il paradiso. Ma tutti o quasi potevano ragionevolmente sperare di migliorare le proprie condizioni economiche, e bastava avere un minimo di successo perché la felicità – almeno una forma parziale e semplice e infantile, ma fresca e sventata, e incolpevole, e condivisa di felicità – avviasse a spargersi senza che nessuno o quasi nessuno avesse il coraggio di ammettere di provarla, occupati/e com’erano a lavorare, o tantomeno a raccontarla. Credo davvero che quella fosse l’Italia migliore di sempre”. Quando Manzoni descrive per la prima volta l’Innominato, presenta un uomo “le cui mani arrivavano dove non arrivava la vista degli altri”; eppure è proprio questo potente affermato e vittorioso a vivere “abbattimenti senza motivo, terrori senza pericolo”.
[**Video_box_2**]Ritieni che raccontare l’ascesa, il successo, la vittoria permetta di indagare pieghe dell’animo che altrimenti conosceremmo meno? “Sì, certo. E’ uno stato di grazia, quello dell’ascesa. E va raccontato a piccoli passi, con cura e attenzione. Stando ben lontani dal rappresentare l’ascesa come sempre truffaldina o criminale. Quello è facile, e consueto. Non amo raccontare il successo, invece. Preferisco rappresentare un personaggio che desidera e non si accontenta. Se un personaggio smette di desiderare non mi interessa più”. Prato è una grande città commerciale, e spesso, secondo un certo stereotipo, il mondo degli affari pare in contrasto con quello delle arti. Ritieni anche tu, come Wilde, che sia lo spirito del commercio a essere frainteso nel suo rapporto con l’uomo e le sue espressioni artistiche? “Sì. Amo meno il commercio della produzione industriale. Adoro le fabbriche, non le boutique. Mi garba il meccanismo della creazione di valore, e di denaro. Trovo sia molto letterario”. Puoi raccontarci qualcosa di inaspettato, commovente o divertente, che ti capita scrivendo? “Mi succede spesso di commuovermi mentre scrivo certi capitoli. Riesco a commuovermi anche a rileggerli, a volte”.