Siam pronti alla Corte?
Il cielo non ci è caduto sulla testa, non ancora almeno, ma con la decisione della Corte suprema di rendere costituzionale il matrimonio gay, il terreno sotto i nostri piedi si è spostato. Votare per i repubblicani o mettere in campo altre strategie da ‘culture wars’ non ci salverà”, scrive sul Time Rod Dreher, blogger e opinionista conservatore che negli ultimi anni ha progressivamente abbandonato i dettami classici della guerra culturale a sfondo cristiano sulla pubblica piazza in nome di un’alternativa chiamata Opzione Benedetto. La Corte suprema non ha fatto altro che confermare la necessità di ripensare la strategia per opporsi all’ondata secolarista. Sarà che nella mente di Dreher e nel giro d’intellettuali cristiani con cui da anni ragiona il pensiero non è ancora formato compiutamente, ma è più immediato afferrare il senso dell’Opzione Benedetto per via negationis, individuando innanzitutto cosa non è. Non è quietismo religioso. Non è arrendevolezza. Non è una bandiera bianca mostrata all’esercito delle bandiere arcobaleno. Non è il ritorno alla fortezza dei valori non negoziabili o un Family Day nella boscaglia. Non è un ripiegamento, una fuga dal mondo che erutta i lapilli incandescenti della secolarizzazione, non è nemmeno un moto reazionario di fronte alla sconfitta della visione cristiana del mondo né una riorganizzazione in riserve indiane, sacche di resistenza al pensiero mainstream programmaticamente fuori dal campo di battaglia. Non è nemmeno – ma questo era già più ovvio – un negoziare le condizioni della resa. Parlando con Dreher si scopre che, a ben vedere, non è nemmeno un’opzione monastica nel senso strettamente benedettino del termine, un invito alla contemplazione divina dentro chiostri ben difesi dai quali si potrà poi partire a ricostruire un’altra volta, a Dio piacendo, l’occidente vandalizzato.
Il commentatore di The American Conservative non vuole suscitare un popolo di chierici tonsurati separati dal mondo. Dreher dice pure che il cardinale Camillo Ruini, intervistato da Matteo Matzuzzi in queste pagine, ha frainteso la sua proposta. Diceva Ruini: “Rod Dreher sembra confondere istanze molto diverse. Benedetto di Norcia si è ritirato dal mondo non perché disperasse di convertirlo, ma perché cercava soltanto Dio e riteneva di poterlo trovare nel modo migliore nella vita monastica. La sua è stata un’intuizione, o meglio, una vocazione estremamente feconda e determinante per la storia della nostra civiltà”. Risposta: “Non c’è disperazione né pessimismo nella mia riflessione, non cerco di creare un’utopia consolatoria, un posto dove possiamo leccarci le ferite e confortarci, ma un luogo, anzi diversi luoghi, dove possiamo essere noi stessi, recuperare la fede autentica. Non immagino necessariamente un occidente punteggiato di monasteri per laici, ma esperienze di comunità che permettano anzitutto a noi stessi di recuperare la fede”.
Nessuna contraddizione, insomma, con il quaerere Deum che era il solo motore che ha spinto il santo di Norcia a rifondare l’Europa dai monasteri, come ha ricordato in modo magistrale un altro Benedetto, Joseph Ratzinger, nel discorso al Collège des Bernardins del 2008: “Non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato […] Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile”.
Il riferimento principale di Dreher è quell’ultima pagina, insieme ambigua e profetica, di After Virtue, l’opera fondamentale di Alasdair McIntyre. In quella pagina il filosofo americano traccia un parallelo, per quanto imperfetto, fra la condizione morale dell’Europa e del Nord America e quella dell’impero romano che declina verso l’età oscura, e traccia, in termini per forza vaghi, la necessità di un antidoto: “Quello che conta a questo punto è la costruzione di forme di comunità locali all’interno delle quali la civiltà e la vita morale e intellettuale possa essere sostenuta attraverso i Secoli Bui che sono già sopra di noi. E se la tradizione della virtù è riuscita a sopravvivere agli ultimi Secoli Bui, non siamo completamente senza speranza. Questa volta, tuttavia, i barbari non ci aspettano alla frontiera. Ci stanno governando già da diverso tempo. Ed è la nostra mancanza di coscienza di questo fatto che costituisce parte del nostro ragionamento. Stiamo aspettando non un Godot ma un altro, certamente diverso, San Benedetto”.
L’ambizioso progetto di Dreher è quello di immaginare o rintracciare forme plausibili – sociali, educative, caritatevoli eccetera – in cui questa ripresa di coscienza possa materializzarsi e fiorire. L’Opzione Benedetto è un appello a quelli che chiama i “cristiani ortodossi con la o minuscola”, il popolo cristiano che non ha rinunciato alla possibilità di vivere autenticamente la fede, da distinguere dagli Ortodossi con la maiuscola, ai quali Dreher appartiene, e dai cristiani per tradizione e humus culturale che stanno lasciando a frotte chiese e denominazioni. E’ cresciuto in un ambiente francofilo ma religiosamente metodista, ha abbandonato il protestantesimo perché era “noioso e conformista, orientato moralisticamente e intriso di convenzioni sociali”, mentre il cattolicesimo aveva la radicalità che andava cercando. Si è disaffezionato alla chiesa romana quando si è occupato, come cronista, della prima ondata degli scandali della pedofilia nel clero americano, annunciando nel 2006 il passaggio all’ortodossia.
I suoi detrattori amano rappresentarlo come un atrabiliare profeta di sventura che dal suo buio seminterrato ideologico ringhia antiche formule liturgiche contro il mondo eretico, quando in realtà è uomo mite con accenti di buonumore chestertoniani, uno che preferisce partire dalla gioia che il cristianesimo genera piuttosto che dagli attacchi del pensiero dominante al mondo tradizionale. Non che gli sfugga la portata della battaglia. Ha deciso di lavorare a un libro sull’Opzione Benedetto, categoria coniata già nel 2013, quando nell’Indiana è stata approvata la riforma alla legge sulla libertà religiosa. “Ho iniziato a ricevere telefonate e email da amici e lettori: dobbiamo fare qualcosa, dicevano. E sono d’accordo, bisogna fare qualcosa, ma innanzitutto dobbiamo riconoscere che il modello cristiano dell’impegno politico ha fallito. Sono stato per molto tempo un cattolico estremamente impegnato in politica, ma mi rendo conto ora che nel nome della battaglia politica abbiamo dimenticato la cultura, sottovalutando l’essenza della proposta cristiana. Benedetto XVI parlava delle minoranze creative, un concetto che va a braccetto con l’Opzione Benedetto. Se dovessi fare la sintesi dell’impatto esistenziale della mia proposta sarebbe questa: vivere in modo controculturale”. Il che è molto diverso dalla “culture war” della destra religiosa, quella che ora, leggendo l’ultima sentenza della corte, financo i più pervicaci organizzatori di marce ammettono essere persa.
Di fronte all’avanzata potente di una visione antropologica scristianizzata, dice Dreher, gli ortodossi con la o minuscola devono “fare un passo indietro rispetto alla cultura individualista in cui siamo immersi”, combattere la signoria dell’individuo, con le sue voglie, la sua titanica capacità di ridefinirsi e ridefinire le strutture sociali, la sua liberale tendenza a censurare ciò che non si conforma ai suoi principi. “Già dieci anni fa lo storico del cristianesimo Robert Louis Wilken diceva che non c’è niente di più importante di ricordarci quello che siamo. E’ più per la crisi della nostra coscienza cristiana che per gli attacchi della secolarizzazione che in Europa e America la gente, specialmente i giovani, abbandona il cristianesimo”, dice. Altra cosa che l’Opzione Benedetto non è: un progetto politico. Michael Hanby, professore all’istituto John Paul II di Washington e mente che ha fatto buona parte del lavoro teologico dietro l’Opzione Benedetto, ha scritto che “la sintesi non può essere politica, come se il progetto civile del cristianesimo americano potesse essere rivitalizzato da vecchie coalizioni rabberciate o da un nuovo fronte. Dobbiamo piuttosto concepirla principalmente come una forma di testimonianza”. Dreher aggiunge: “La testimonianza è l’unica forma di evangelizzazione che ha un senso in questo momento storico. Ratzinger diceva che le migliori armi della chiesa sono l’arte e i santi che produce, una sintesi molto bella e vera. Dobbiamo essere una luce per il mondo che ha abbracciato le tenebre”.
L’Opzione Benedetto è per certi versi un prodotto eminentemente americano. Il progetto messianico dei padri pellegrini (Stanley Hauerwas l’ha chiamato “il progetto della modernità”, unico caso occidentale di uno stato che non deve definirsi sullo sfondo di un’identità cristiana precedentemente esistente, ma la concepisce ex novo) aspirava alla riconciliazione fra modernità e cristianesimo, e anche i cattolici in America hanno inseguito – e inseguono – il sogno di “dimenticarsi quale sia la differenza fra essere un buon cristiano e un buon americano”, un abbraccio fra logica della rivelazione e ordine liberale del quale l’Europa cattolica non ha avuto occasione di invaghirsi. Il gesuita John Courtney Murray, personalità fondamentale del cattolicesimo americano del Ventesimo secolo, aveva teorizzato la perfetta compatibilità fra democrazia liberale e cristianesimo, un matrimonio rischioso che ha lasciato generazioni per cui Dio, dice Dreher, “è soltanto il cameriere del sogno americano. Il diabolico genio religioso dell’America ha ridotto Dio a qualsiasi cosa. McIntyre diceva che se gli uomini non hanno un’idea comune su qualcosa fuori di sé, l’unico criterio che rimane è ‘I feel it’, il sentimento. Ma il sentimento è sempre ondivago e indiscutibile, non se ne può parlare. Questo elemento sentimentale è un tratto comune a gran parte della religiosità americana”.
[**Video_box_2**]Il popolo che aveva creduto di superare con un salto messianico il fossato fra cristianesimo e modernità “si trova ora a sperimentare in un tempo rapidissimo il conflitto fra stato e chiesa che l’Europa ha visto dipanarsi nel corso di un paio di secoli”.
Dreher nota che l’improvvisa presa di coscienza che la fortezza è sotto attacco si riflette in una profonda spaccatura generazionale del popolo cristiano: “I più vecchi sono tendenzialmente murrayiani, cercano ancora la via per rendere compatibile la vita cristiana e quella americana, mentre i giovani che non abbandonano la fede sono molto più duri e disillusi sulla promessa della vita americana: era una promessa verniciata di concetti teologici, ma sotto c’erano soltanto illuminismo e secolarizzazione”.
I protestanti avevano visto l’onda abbattersi all’inizio del ventesimo secolo e si sono premuniti con una exit strategy. Le comunità remote, la condivisione agricola, l’homeschooling, il vangelo vissuto nella wilderness, davanti agli occhi di selezionati fratelli e degli angeli. Non proprio i carretti degli Amish, ma il concetto non è molto diverso. “Quando se ne sono andati dallo spazio pubblico hanno notato che la cultura ha preso una deriva totalmente secolarizzata, e hanno deciso di tornare indietro, ma ormai era troppo tardi”, spiega Dreher. Sono rimasti i cattolici a presidiare la fortezza, come direbbe Flannery O’Connor, autrice del sud che Dreher ama e cita: “Devi premere sul secolo almeno quanto il secolo preme su di te”.
Ma il ritiro extrapolitico dei protestanti nulla ha a che vedere con l’Opzione Benedetto. Anche perché – lo nota il già citato Hanby – non esiste un “fuori” in cui ritirarsi. L’ordine liberale ha occupato tutto lo spazio politico e concettuale esistente, anche quello remoto, e in un qualche senso anche gruppi come gli Amish sono ricompresi, inquadrati e legittimati nel medesimo ordine, benché nella parte degli oppositori della civiltà moderna. L’esistenza di comunità che vivono secondo un ordinamento alternativo rispetto a quello che regola la vita civile è comunque permessa da decreti statali. Sono concessioni, non rivoluzioni. Gli unici spazi inviolati sono quelli della coscienza, dell’ “orientamento in senso escatologico” (Benedetto XVI), della vita cristiana esperita nei suoi fattori essenziali a livello personale e comunitario, fino al punto di proiettare, sempre a Dio piacendo, le sue conseguenze su tutto il resto, ma quasi come un effetto collaterale di quell’orientamento, un esito involontario.
Esattamente il metodo di Benedetto. In termini più esistenziali si tratta, dice Dreher, di proporre un antidoto al “Deismo Terapeutico Moralistico”, termine coniato dal sociologo delle religioni Christian Smith per descrivere l’atteggiamento dominante fra la gioventù di fatto postcristiana ma formalmente ancora ancorata in qualche modo a un codice religioso. Il “Deismo Terapeutico Moralistico” postula l’esistenza di un dio che guarda l’uomo da lontano e gli ordina di essere buono, di stare bene con se stesso, di essere felice e non infastidire il prossimo, una specie di Grande Analista che fa sdraiare l’umanità sul lettino e le prescrive sessioni di yoga. E’ un dio consolatorio che non disturba l’ordinamento sociale, non un Consolatore venuto per portare la spada. “Essere cristiani significa essere radicali – dice Dreher – e questo non si accorda con il modo di vita americano nel 21esimo secolo, dove i residui del cristianesimo sono stati spazzati via dalla società oppure sono stati ridotti ad assistenza spirituale per chi cerca un conforto psicologico. Ma di fronte a questi cambiamenti occorre pensare un nuovo modo per riscoprire e quindi ri-comunicare questa radicalità”.
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