La desolante parata degli scrittori italiani contro la libertà d'espressione
Non credevo ai miei occhi quando ho letto l’email di Nuovi Argomenti, il trimestrale fondato da Alberto Moravia e diretto da Dacia Maraini, contenente un questionario sulla libertà di espressione. Avranno sbagliato indirizzo? Cosa c’entro io con questa terrazza di romani de sinistra? Boh, si saranno scoperti italiani e libberali. Non credevo ai miei occhi quando sulla rivista presentemente in edicola ho letto le risposte degli altri interpellati, un campione numeroso e senz’altro significativo di culturame da redazione e da premio. In sintesi: gli scrittori italiani sono in maggioranza contrari alla libertà di espressione. Ma come: se alla libertà di espressione non ci tengono loro, chi altri? Chi legge Nuovi Argomenti 70 comincia a sospettare che per salvare la libertà di espressione sia meglio puntare sui baristi o sui meccanici ciclisti.
Certamente in questo numero corposo (221 pagine) qualcuno che non ama la mordacchia lo si trova. Sono però più numerosi i pesci in barile, i prolissi che pur di non rispondere allungano il brodo all’inverosimile. Addirittura pullulanti risultano i concisi che non temono di esplicitare in poche righe quanto la libertà di espressione dia loro, chissà perché, molta noia. Comincio col linguista Massimo Arcangeli. Lui che ha scritto un libro sulla scapigliatura esige una scrittura pettinatissima: “I limiti alla libertà d’espressione deve deciderli la società civile”. Se ci ragioni un attimo è un’affermazione terrificante: lo stato è un censore, potente, invadente, ma è uno, mentre la società civile è un milione di censori. Un milione di associazioni e associazioncine ognuna col suo presidente o presidentino e il suo avvocato o avvocatino, tutti facilmente irritabili, permalosi, ansiosi di querelare chi contesta la loro monomaniacale visione del mondo. Ad esempio, sul sito Expo vedo che un bel pezzo di società civile si chiama Oxfam, confederazione di organizzazioni che “pone un focus sull’empowerment femminile”. Io, per motivi biblici, erotici e demografici, sono per l’indebolimento muliebre e l’autorità virile: è chiaro che se i miei articoli dovessero passare al vaglio di Oxfam potrei tranquillamente andarmene a stappare bottiglie di lambrusco. Proseguo col giallista Filippo Bologna: “La libertà di espressione dovrebbe osservare dei confini dettati dal buon senso, dalla ragionevolezza, dalla morale”. In pratica il Bologna sta chiedendo la messa fuori legge del cristianesimo “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani”, del Vangelo che secondo san Paolo va annunciato “opportune et importune”. Poi ci sono due complessisti, due signori che non dicono niente ma che almeno lo dicono subito, così non si perde tempo. Il primo è il partigianista Aldo Cazzullo che alla domanda numero uno del questionario (“La libertà d’espressione deve tener conto di altre libertà, per esempio legate a religione, credo politico, ruoli istituzionali, memoria storica, o non deve essere limitata?”) risponde da vecchio volpone: “La questione è complessa”. Diventerà direttore del Corriere della Sera. Il secondo è il poeta Roberto Deidier, volpacchiotto: “E’ una domanda complessa”. Diventerà capo delle pagine culturali del Corriere della Sera.
[**Video_box_2**]Lo scrittore Mauro Covacich argomenta nel suo solito modo serpentino, sibilante e sgradevole: “Il rischio mi sembra fondamentale per esercitare la libertà di espressione. Penso ai rivoluzionari di ogni epoca, ai dissidenti, ai disertori, ai ribelli. Come dire, mi prendo la libertà di esprimere il mio pensiero perché ne va della mia vita”. Insomma Covacich non vuole impedirmi di criticare il Corano, vuole impedirmi di passarla liscia: sarebbe troppo comodo! Quindi per meritare la libertà che mi sono preso mi spinge a offrire la gola alla lama del coranista. Ringrazio il segretario di redazione Marco Cubeddu per avermi coinvolto, ma non per quello che ha scritto, in qualità di autore Mondadori, a pagina 72: “La libertà di esprimersi deve variare in base al contesto, tener conto di limiti a volte maggiori, a volte minori e il bilanciamento di questi limiti dovrebbe essere prerogativa di un potere costituito che valuti, in base all’oggettivo vantaggio collettivo, fino a che grado di libertà d’espressione si possa giungere”. Ho capito bene? Le opere d’arte hanno diritto di esistere solo se si piegano all’oggettivo vantaggio collettivo? Questo non è nemmeno comunismo, è stalinismo, è Zdanov che riduce al silenzio Anna Achmatova accusandola di individualismo. (Forse un giorno Cubeddu mi spiegherà l’oggettivo vantaggio collettivo insito nel suo ultimo romanzo, “Pornokiller”). L’orwelliano Erri De Luca è per garantire libertà di espressione a tutti salvo che ai fascisti, un po’ meno uguali degli altri: proibiti i saluti romani, forse pure le celtiche, mentre al vecchio capo del servizio d’ordine di Lotta Continua le bandiere nere dell’Isis non destano alcuna preoccupazione. Orwelliano in seconda Raul Montanari: rispetto al laconico maestro gli occorrono molte più parole per recitare la parte del maiale Napoleon, lo Stalin suino della “Fattoria degli animali”, e non gli viene nemmeno bene, forse non ci crede abbastanza. Se nella vita avesse fatto il gelataio, anziché l’autore di libri non troppo indispensabili e non troppo venduti e perciò particolarmente bisognoso di mostrarsi allineato a editori e recensori, avrebbe magari adottato il luminoso motto “Vivi e lascia vivere”. Purtroppo per noi e per lui non ha fatto il gelataio. Secondo lo storico della letteratura Stefano Jossa “gli unici limiti alla libertà di parola dovranno essere la mancanza di umorismo e la stupidità”. Decide Jossa cosa è divertente e cosa è intelligente. Il feltrinelliano Marco Missiroli si intorcina ma non abbastanza per nascondere le aspirazioni censorie. Un autore dovrebbe “tener conto, prima di ogni possibile altra libertà, della non gratuità offensiva. La domanda è: se dico questo, chi offendo?”. Ecco perché ha ambientato il suo romanzo fresco di stampa e già onusto di applausi nel passato: così non si offende nessuno. Provasse a uscire dall’Arcadia e a occuparsi del presente, a fare critica militante ovvero critica gastronomica, critica musicale, critica d’arte, critica vestimentaria, e scoprirebbe che, a forza di “tener conto”, oggi i cuochi, i cantanti, gli artisti e gli stilisti vengono narrati come Racine narrava Luigi XIV. I due mostri illiberali, i due più credibili candidati al Premio Lubjanka me li sono riservati per il finale. Giulio Silvano, di cui non so nulla salvo ciò che leggo sul sito di Nuovi Argomenti (“Nato in Liguria nel 1989, ha vissuto a Parigi e negli Stati Uniti. Vive a Roma, scrive e traduce”), sogna di mandare gente in carcere: “Chi nega l’esistenza della Shoah, del riscaldamento globale o delle teorie evoluzionistiche non sta liberamente esprimendo un’idea, sta dicendo stupidaggini, e dovrebbe risponderne legalmente”. Scrive e traduce, Silvano, ma legge? E, soprattutto, si rilegge? Lo dice lui stesso che l’evoluzionismo è una teoria, anzi, una serie di teorie, quindi lo sa che sta parlando di ipotesi non scientificamente provate: e vuole spedire al gabbio un creazionista moderato come me? L’altro è Gabriele Pedullà, professore di Letteratura all’Università di Teramo capace di definire Theo van Gogh, il regista olandese assassinato per le sue critiche all’islam, “mediocre di grandi ambizioni”, “presunto martire della libertà” le cui opere esprimono “miseria artistica e umana”. Ecco, io mi avvalgo di tutta la libertà di espressione ancora esercitabile in Italia per dire che trovo queste parole di Pedullà miserabili. E desolante la parata di caporali della letteratura organizzata da Nuovi Argomenti.