Perché la democrazia nell'industria musicale contemporanea non esiste
Roma. Apple music, il nuovo servizio di streaming in abbonamento della Mela morsicata, è ufficialmente disponibile in tutto il mondo. La democratizzazione del suono per pochi centesimi, la qualità senza pirateria, tutto legale e tutto di qualità. Errata corrige: Apple music è partito in tutto il mondo tranne che in un posto, la Grecia. I piccoli drammi del controllo dei capitali, scriveva Bloomberg, perché in effetti dietro il messaggio di errore che molti utenti greci hanno visualizzato, tentando di ascoltare Taylor Swift con Apple music, ci sarebbe la difficoltà di utilizzare le carte di credito con le compagnie straniere. Tutta colpa di Tsipras, tutta colpa di Varoufakis. Del resto, se dovessimo delineare il profilo tipo del populista, non diremmo certo che aspettasse con ansia l’arrivo di un abbonamento dell’azienda che fu di Steve Jobs. Piuttosto, qualche giga di file torrent da scaricare. Oppure il servizio gratuito di Spotify, quello con accesso via Facebook. Su quella piattaforma, in Grecia la canzone più ascoltata della settimana è “Banana Boat Song (Day-Oh)”, la hit del 1956 di Harry Belafonte che riprende un canto popolare dei portuali giamaicani. E sembra di sentirlo fino a Berlino, quel coro: “Come, mister tallyman, tally me banana / Daylight come and we wanna go home” (Vieni signore, conta le mie banane, arriva luce del giorno e noi vogliamo andare a casa).
La democrazia nell'industria musicale contemporanea non esiste. Trattasi piuttosto di una forma di dittatura populista, che detta legge tramite social network. Ce lo chiede la gggente. Non si tratta più di costruire beat seller, venditori di ritmo, ma best seller: quelli che tirano fuori un album e finisce subito primo in classifica. E i prodotti sfornati dai talent ne sono l'esempio perfetto: manichini col "vestito cucito addosso" (come amava dire Simona Ventura negli anni d'oro di “X-Factor”), mica come ci piacerebbe che fosse, ma come piacerebbe alla gggente. Qualunque cosa, purché rientri nei canoni della dittatura.
Una delle frasi più citate, tratte da un qualunque manuale di conversazione in tema canzoni e cantautori italiani, delinea la figura di Alex Britti come uno dei più grandi chitarristi che abbia mai avuto l'Italia, costretto a mettere insieme il pranzo con la cena cantando "La Vasca" ai concerti. E come non parlare di quello che fu l'anti populista per eccellenza, Francesco De Gregori. Facendo esempio di Bob Dylan, il Principe non usava mai lo stesso arrangiamento dei dischi per cantare i suoi pezzi ai concerti. La scusa era: se volete sentire quella canzone fatta proprio così, compratevi il disco. E poi, detto tra noi, che volgarità tutta quella gente che mi canta dietro.
[**Video_box_2**]Ma è a livello internazionale che la dittatura della gggente sulla musica dà il suo meglio. Prendiamo Rihanna, la regina delle classifiche digital, dei social network. Perfetta, in ogni tuìt. Il fatto è che con il video di "Bitch Better Have My Money" uscito due giorni fa ha voluto un tantino esagerare con sangue, violenza e capezzoli. Risultato? La gggente incazzata su Twitter, femministe sul piede di guerra. E l'unica cosa che conta più per una popstar che per un politico è il consenso. Lo sa pure Keith Flint: ve lo ricordate il cantante dei Prodigy, quello con cresta e occhi spiritati che nei Novanta cantava di incendi e piromania? Siccome l'età avanza per tutti, Flint aveva pensato potesse essere una buona idea prendere in gestione un pub nell'Essex, terra natìa del gruppo. Ebbene: un uomo sopravvissuto al brit pop demolito dai commenti su Tripadvisor della gggente. Il pub The Leather Bottle è infatti il classico, accogliente pub inglese senza creste, teschi e punk. Ma uno come Keith Flint non può permettersi di fare il pensionato, dice la gggente.