La tavolozza di Adelphi
Il glorioso ritorno della pittura: nel mondo dell’arte da almeno sei mesi non si parla d’altro. L’annuncio ufficiale è stato dato dal MoMA di New York che ha ospitato fino a questo aprile “The Forever Now: Contemporary Painting in an Atemporal World”, mostra dai buoni propositi ma con una inadeguata selezione di artisti che rischia di affossare quella reinassance di cui si fa alfiere. Altra buona notizia: Nicolas Bourriaud, il direttore dell'École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, autore di “Esthétique relationnelle”, accanito citatore di postpostpoststrutturalisti, è stato licenziato in tronco e rimpiazzato da Éric de Chassey, storico dell’arte, autore della monografia del grande Eugène Leroy, l’impastatore. Corre voce sia per un capriccio di Julie Gayet. Lunga vita alla nuova marchesa di Pompadour!
Il ritorno della pittura si sta trasformando in un fenomeno d’isteria collettiva: torme di artisti concettuali, artisti d’archivio, performer che mai hanno impugnato un pennello, ora studiano il Quattrocento cercando di trainare la pittura dalla loro, mentre chi campa sulle installazioni corre dalla zia, pittrice della domenica, le frega un quadretto e lo piazza nel bianco della galleria, in mezzo a una siepe di Aucuba tanto per fare postmoderno. In un’Italia che non sa valutare la buona pittura e, per timore, si trincera dietro mostre blockbuster di Leonardo, Michelangelo, Raffaello, è doveroso ricordare chi ci ha fatto conoscere artisti come Léon Spilliaert, Stanley Spencer, Kostantin Somov, Félix Vallotton, Alex Colville. Sono grata ad Adelphi.
In questi quarant’anni in cui l’arte italiana si è divisa tra sculture dalle tonalità burriane piazzate in mezzo alle circonvallazioni e la dittatura dell’arte povera, in questi lunghi anni insomma dove l’Italia si è beata di quello pseudocosmopolitismo che è l’effige stessa del provincialismo, Adelphi è rimasta fedele alla grande pittura, aspettando “l’altra storia dell’arte”, così la chiama Roberto Calasso. Per i miei quindici anni Adelphi mi regalò “Il ballo”. Era il primo di una lunga serie di titoli di Irène Némirovsky pubblicati dalla casa editrice; la storia di una madre invidiosa e di una figlia stronzetta; le due si fanno piccoli dispetti, poi grandi, poi imperdonabili. Donne guardano impietosamente altre donne, ridono, donne vogliose, vergini, egoiste, cattive, ma anche esuli, innamorate, Clarice Lispector, Colette, Nina Berberova, Wislawa Szymborska, Muriel Spark occhieggiano dalle copertine; l’una, distesa su una pelle di leone, mostra i piedini; l’altra impugna i braccioli di una poltrona professorale masticando il rossetto. Le mistiche, le seduttrici, scrittrici portuali, marinaie, rivierasche, nei miei pensieri camminavano lungo le banchine di un porto. Presto scoprii che l’intera casa editrice era portuale, dalla “Proleterka” di Fleur Jaeggy alle “Marie del porto” di Georges Simenon a “L’isola” di Sándor Márai: erano romanzi di approdi, sbarchi, partenze, ciascuno con un suo colore. La tavolozza di Adelphi. Nella mia città di ocre pallide e piante rampicanti, leggendo Adelphi ero diventata un ton sur ton. Inconsapevolmente abbinavo i miei vestiti alle copertine: rosso castagno, rosa prugna, azzurro pervinca, terra rossa ossidata, in attesa dello sfuggente rosa Tiepolo. Questo stile diventò un problema quando m’iscrissi a una facoltà d’arte contemporanea dove i new media artist si vestivano come la copertina di un vinile di synthpop, e i land artist con le tonalità del R&B alternativo. In quell’iper regno indossare i colori Adelphi era un tremendo affronto allo Zeitgeist. “Sofia! Lo spirito del tempo, dov’è il tuo Zeitgeist?”, mi sgridava l’illustre artista uso a nascondere pezzi d’oro sotto i pavimenti e nei muri. Già, lo Zeitgeist, me lo dimenticavo sempre. E ancora me lo dimentico: Giambattista Tiepolo è contemporaneo a Emil Cioran alter ego di Cristina Campo sorella di Hugo van der Goes amico di un ignoto miniaturista indiano del secolo XVIII, tutti miei maestri nel momento in cui sono protagonisti di questo breve scritto a loro dedicato.
Scrive Roberto Calasso in “L’impronta dell’editore”: “Ecfrasi era il termine che si usava, nella Grecia antica, per indicare quel procedimento retorico che consiste nel tradurre in parole le opere d’arte. Tutti gli editori che usano immagini praticano l’arte dell’ecfrasi al rovescio”. Ecfrasi è il racconto che uno scrittore fa del dipinto, per esempio Balzac del piede di Frenhofer ne “Il capolavoro sconosciuto”; ecfrasi al rovescio è l’invenzione di colui che edita il libro: trovare una copertina che, lungi da ogni patetica spiegazione, ne spii l’enigma. Benvenuta ecfrasi! Immagino una scuola dove gli studenti pensano a parole legate tra loro da fili di storia e di luce. Frescura, azulejo, Matisse, bergamotto. Fuoco, Oreste, rododendro. Cobalto più terra di Siena marron seppia, uccidere la seppia, battigia, villeggiatura, Fitzgerald, no Fitzgerald no, Isherwood seppia. Una delle più struggenti ecfrasi di Adelphi si svolge nello “Squartamento” di E. M. Cioran affrescato da Giambattista Tiepolo. La prima pagina del libro racconta la leggenda degli angeli ignavi, gli Irresoluti della schiera che non si schierò. Di fronte alla lotta tra i seguaci di Michele e quelli del Drago, gli Irresoluti non presero partito, limitandosi a guardare; furono in seguito relegati sulla Terra per pensare e imparare a scegliere. Lo stesso destino vale per l’uomo, condannato all’avventura della quale non sarà capace se non quando sopprimerà in sé lo spettatore. “Squartamento”, che capolavoro, volevo farlo a pezzi, un’erma bifronte: da una parte l’uomo in gloria nell’avventura dei secoli, dall’altra l’avventuriero disilluso, consapevole della pochezza e dell’inganno delle proprie fatiche, assetato di brevi momenti di gioia e verità: le punizioni. Il lettore cerca traccia di quello schiaffo che solo e primo fece provare un brivido di piacere agli angeli ignavi, lo schiaffo che lo trasformò da spettatore in attore.
Non stracciai il libro perché lo amavo quanto ne amavo la meravigliosa copertina, l’affresco – sua ultima commissione – che Giambattista Tiepolo dipinse nel 1764 sul soffitto della Sala del Trono di Palazzo Reale a Madrid. Il giudizio di Roberto Calasso sul soffitto di Palazzo Reale: “Innanzitutto il soffitto del Palazzo Reale, che non regge il confronto con quello di Würzburg e neppure con Palazzo Clerici o Villa Pisani. Come se, operando per la prima volta sul luogo di un potere imponente e indubitabile, l’invenzione di Tiepolo si attenuasse, perdesse qualcosa del suo brio temerario”. Umilmente mi permetto di dissentire. Considero il soffitto di Palazzo Reale un vertice dell’arte di Tiepolo. Un arcigno conquistador mostra alla Spagna le sue nuove colonie, le Indie. Presenta gli inca, i pellerossa, la lince, il coccodrillo e quello che sembra un immenso cetaceo intrappolato tra le corde. Il bottino, il paradiso, il Nuovo Mondo; ma gli inca sono depressi, il coccodrillo è morto, la lince stravolta dal mal di mare fissa il vuoto con occhio vacuo: è l’impero della finzione. Lo è anche il Siglo de Oro? L’orizzonte s’abbassa, sembra che Tiepolo torni ad ammiccare a quell’ipotesi così confortante, che la Terra sia piatta; la nave s’inclina, sull’albero maestro una vedetta avvista le cascate in delirio, i confines terrarum. Il conquistador, che si sarà pure accorto di aver traversato l’Atlantico con un carico di cartapesta, non sembra preoccupato di presentare alla Spagna brandelli sfatti d’America; sa che quel che conta è un nuovo rotolino di ciccia sulla pancia del re, un altro nome di fanciulla sul carnet di Don Giovanni; da bravo cacciator di cacciatori presenta la preda, viva o morta poco importa. Agli occhi di chi lo guarda il conquistador perde minuto dopo minuto il suo fascino, si riduce a un fattorino della conquista, a quel che lo spettatore non vorrebbe mai vedere: un onesto lavoratore che compie il suo lavoro. L’ardore, l’ardore, l’ardore, la noia, la noia, la noia. Giambattista Tiepolo paternamente anticipa le profezie di Cioran: ancor più che nell’ammiccante teschio degli “Ambasciatori” di Holbein il Giovane, la vanitas irrompe sui soffitti della corte di Carlo III di Borbone, re delle Spagne e delle Indie. E’ il Giudizio Universale di Tiepolo, la fine di quel mondo che con tanto sfarzo e passione aveva celebrato. Naturalmente non è da credere che a Calasso questa dissimulata tragedia sia dispiaciuta; anch’egli dissimula.
Le copertine Adelphi dedicate a Tiepolo sono tra i più sinceri omaggi attribuiti dall’Italia al grande maestro trascurato dagli atenei, incompreso da coloro che temono il virtuosismo dei suoi colori, da non confondere con quella vanità che solo a loro appartiene. Tiepolo in vita non aveva mai dato prova di arroganza, anzi si faceva chiamare Tiepoletto, bazzicava le case dei pescatori, leggeva a malapena. Più che dipingere, Tiepolo pittava. Con grande innocenza copiava simboli di cui a malapena conosceva l’origine. Di questa ingenuità e dell’assenza di pagine scritte di proprio pugno da Tiepolo, Calasso si stupisce più volte ne “Il rosa Tiepolo”, tanto che sembra aver scritto questo libro per liberarsi del proprio stupore, assaporandolo.
Un mondo finisce, ma l’ecfrasi è sempre vigile e gli angeli stanno sempre nei loro cerchi, anche gli Irresoluti; Cioran li aveva disprezzati, ma Cristina Campo ci invita a rivalutarne l’ignavia. “Astensione e interdizione sono le assise del destino, non meno che del salotto e della poesia. Non sono forse un lungo catalogo di astensioni (non farai, non dirai…) le Tavole della legge, non è un minuzioso resoconto di astensioni (non ho fatto, non ho detto…) il Libro dei Morti? La virtù è negativa…”, scrive Cristina Campo in “Gli imperdonabili”. Che la virtù potesse essere negativa, che agli angeli fosse permessa l’irresolutezza, per me fu una grande scoperta. I miei genitori sono psicanalisti e se vivi con due psicanalisti negare è ammettere, ammettere nella negazione è tradirsi e tradirsi è essere presi in giro per il resto della giornata. Una sera di tante estati fa sedevo con mio padre sulla sponda del lago di Lavarone, lungo il sentiero che Freud percorreva ogni giorno meditando la Gradiva. Avevo appena visto nell’acqua sotto il canneto una rana con canini lunghissimi, strano, vero? Mio padre mi correggeva un tema d’italiano. Posò il foglio: aveva cancellato tutti i “non”. Scoprii così che il “non” uccideva la frase, che nessuno avrebbe veramente letto le frasi con il “non” se non per una pigra assuefazione. Il “non” abbandonò il mio vocabolario e alla parola “voglio” da allora subentrò “desidero”. Poi fu la volta del “tutti” e del “loro”. “Chi sono questi tutti, Sofia? E questi loro?”. Cominciai a trovar difetti nelle congiunzioni esplicative, nelle conclusive, nelle concessive; scrivevo a mortaretto. Finché grazie a Cristina Campo ebbi modo di rivalutare il “non”. Il non… non era poi così male. Pure l’irresolutezza non era male, gli Irresoluti erano dei visionari. Per la Campo gli angeli irresoluti assomigliavano al “ragazzo che, in un colombario di periferia, può ancora vegliare tutta la notte su un testo immemoriale”.
L’immagine della copertina dedicata a Cristina Campo è il ritratto che Hugo van der Goes fece a Maria di Francesco Baroncelli, moglie di Tommaso Portinari, il più ricco tra i banchieri fiorentini di piazza a Bruges negli anni Settanta del Quattrocento. Gli stilemi del gotico cadono a terra come i neri fiori dell’aquilegia nel Trittico Portinari, svelando le vere gote, le vere ciglia della dama; si scopre così una somiglianza perturbante con la Campo: la piega sul collo, le labbra distese ma piene e leggermente inclinate verso la linea dei denti, il naso scosceso, le narici nervose, gli occhi gonfi della lettrice notturna, la fronte che si arrampica in alto, rasata e coperta di biacca quella di Maria, incorniciata di capelli quella di Cristina. Un’antenata medievale per Cristina Campo, ma quante altre antenate per le scrittrici Adelphi! Quale editore più di Roberto Calasso ama riconoscere il corpo delle proprie scrittrici tra cataste di cappelli a hennin, gorgiere, foulard ed ermellini, cerchielli, faux-culs e vestagliette?
[**Video_box_2**]Effetti terapeutici dell’ecfrasi. Mi sono avvicinata allo studio della miniatura indiana moghul con mire di saccheggio. Mi trovavo in un periodo di scarsa ispirazione con i miei dipinti e scoprii che il miglior modo per superarlo era ricoprire una tela con trenta, quaranta scimmie. Vivevo a Londra, mi ero appena trasferita in una laterale di Brick Lane dove gli affitti per gli studi sono più bassi; trasferirsi là è scegliere di vivere a Bangalore. Generalmente gli artisti di Londra Est non conoscono Giotto, ma hanno illustrazioni del “Bharata” appese allo specchio del bagno. Dovendo trovare delle scimmie da dipingere, il mio occhio cadde sulle miniature dei Vanara, il popolo scimmia cantato nel “Ramayana”. Avevo poi la sfortuna di condividere la stanza con Nunu, una taiwanese ipocondriaca dal credo sincretico che studiava gioielleria e pregava Buddha, la Trimurti, Maometto più una lista scelta di santi della chiesa ortodossa. Avevo ormai copiato almeno cinquanta scimmie ma mi sentivo ancora vuota, passavo le giornate stesa sul letto con le gambe alzate sul muro, osservavo Nunu scaldarsi zuppette precotte, baciare tutti i suoi dei e guardare serial coreani in streaming. In quei dieci metri quadri di stanza Nunu riceveva amici e parenti che mi guardavano con disapprovazione. La sua fortune teller, una ragazzina cinese di diciotto anni che aveva ereditato i poteri divinatori dalla nonna, le aveva detto: “Nunu non hai un demone alle tue spalle, non hai un Buddha, non ti sposerai mai”. Sfogliavo libri di miniatura moghul: con il passare dei secoli i Moghul avevano acquisito elementi della pittura occidentale, un laccetto rococò, una composizione manierista, un cavallo di Delacroix, e li avevano piazzati nei loro harem, in mezzo a narghilè, elefanti feriti e folli cervicapre. Sfogliavo, e mi montava un’angoscia profonda e retrodatata: quella di chi si crede colonizzatore e invece è un conquistato. Dall’Italia avevo portato con me alcuni libri: “Diario d’inverno” di Paul Auster, “Letteratura e salti mortali” di Raffaele La Capria e il “Bhagavadgita” in edizione Adelphi. L’India me l’ero portata dietro: un segno. Presi il libro tra le mani e lo guardai con attenzione. In copertina alcuni uomini ammirano un saggio dalla pelle blu che sputa fuoco su una collina, incenerendola. Mi sentii bruciare la fronte. Il saggio blu, l’odore di alghe liofilizzate che veniva dalla cucina e le prime righe che lessi aprendo il libro: “Fra gli ingannatori io sono il giuoco dei dadi”… L’ecfrasi agì in me secondo le sue misteriose leggi e corsi in studio a intelaiare altro lino.
Tre esempi nella lunga storia dell’ecfrasi adelphiana possono sembrare un niente, ma tremila lo sembrerebbero ancora di più, scatenando quella paura di cui le potenze ctonie si fanno beffa. Così per assicurarmi e darmi un tono, in preparazione all’articolo ho compiuto indagini al fine di scoprire i misteri calassiani: ho vivisezionato “2666 – 1” di Roberto Bolaño per capire il perché del titolo del quadro in copertina. Si tratta di un dipinto di Ben McLaughlin intitolato “Giovedì 1° luglio 2004: un tribunale del Qatar ha condannato due agenti russi per l’omicidio di un ex-presidente ceceno”. Ho sentito la mano di Bolaño sulla mia spalla. Non l’unica mano, sento un mucchio di gente premere dalla voglia, pardon, desiderio, di comparire sulla copertina di un libro Adelphi: R. B. Kitaj per Mandelstam, Dick Bengtsson per Carrère e poi Tal R per Israel J. Singer, Forrest Bess per Faulkner…