I tagliagole hanno vinto: Charlie Hebdo non pubblicherà più Maometto
In vent’anni, la paura si è già divorata pezzi significativi della cultura e del giornalismo in occidente: i “Versetti Satanici” di Salman Rushdie, le caricature di un quotidiano danese, una puntata di “South Park”, dei dipinti alla Tate Gallery di Londra e al Metropolitan Museum of Art di New York, un libro della Yale University Press, l’“Idomeneo” di Mozart, un articolo sul Figaro, il film “Submission” di Theo van Gogh e Ayaan Hirsi Ali, il nome della vignettista Molly Norris, il “Tamerlano” di Marlowe, “Il fanatismo o Maometto il Profeta” di Voltaire, una copertina di Art Spiegelman, il romanzo “Jewel of Medina” di Sherry Jones e ci fermiamo qui nell’elenco incompleto degli scomparsi. Mancavano all’appello soltanto gli irregolari di Charlie Hebdo. Ora si sono allineati anche loro. Il direttore della rivista, Laurent Sourisseau, ha dichiarato al magazine tedesco Stern che lo scopo delle vignette non era di criticare l’islam, ma di “difendere il principio della libertà di espressione”. Poi però ha aggiunto che da ora in avanti Charlie non pubblicherà più caricature su Maometto o l’islam. Una clamorosa autocensura di principio a sei mesi dal massacro al numero 10 di rue Nicolas-Appert, undicesimo arrondissement di Parigi. Il Foglio lo aveva anticipato lo scorso 20 maggio: “La decapitazione di Charlie. Dopo il terrore, i giornalisti non litigano sui soldi, ma su Maometto. Due linee si scontrano all’interno del settimanale satirico. Storia del ritorno di una gauche religiosamente corretta”.
In precedenza anche l’ex disegnatore di punta di Charlie, Rénald Luzier, aveva dichiarato che non avrebbe più messo le mani su Maometto. Ma con l’annuncio di “Riss” Sourisseau, che ha preso il posto del defunto Stéphane Charbonnier alla direzione, l’acquiescenza arriva ufficialmente a Charlie. Due mesi dopo l’attentato, il Monde scoprì che tanti disegnatori, contattati da Charlie per continuare la collaborazione con il settimanale, avevano chiesto espressamente che il loro nome venisse cancellato. L’annuncio di Sourisseau segue quello del Jyllands-Posten, il quotidiano danese che ha fatto ufficialmente sapere che non avrebbe mai più osato mettere le mani sull’islam. Oggi i sopravvissuti di Charlie lavorano, sotto protezione della polizia, all’ottavo piano della sede di Libération. Il prossimo autunno, la redazione dovrebbe però trasferirsi nel tredicesimo distretto, in una nuova sede già ribattezzata “Fort Knox” per le misure di sicurezza. I giornalisti del settimanale anarco-libertario parlano di un desiderio di liberare l’immaginazione e la penna dal furore, dal fanatismo, dalle fatwe.
[**Video_box_2**]E’ un desiderio naturale, persino giusto. Inoltre, in dieci anni Charlie aveva dedicato “soltanto” sette copertine all’islam, ventuno al cristianesimo, dieci ad altre religioni, e nella gran parte dei casi, 485, la copertina era stata dedicata ad argomenti sociali (l’ultima è sulla crisi greca). Ma Charlie Hebdo non è diventato una bandiera globale della libertà di espressione, l’hashtag più popolare della storia, grazie alle copertine su Sarkozy, il Papa o Putin. Lo è diventato grazie a quei sette schizzi sull’islam. Il fatto che Sourisseau annunci che non ce ne sarà un’ottavo è la fine di un mondo. E, forse, anche della libertà di dire e pensare che separava il nostro da quello dei fratelli Kouachi.