Scrivere e far godere il lettore. Ecco cosa bisogna imparare da Doctorow
Non sappiamo se incolpare l’Expo, oppure la mancanza di scrittori all’altezza del compito. O magari dividere le responsabilità tra le parti in causa. Difficile, comunque, immaginare che a tempo debito – diciamo tra una quarantina d’anni – potremmo leggere un romanzo appassionante come come “World’s Fair” di E. L. Doctorow (le iniziali stanno per Edgar Lawrence, “La fiera mondiale” è il titolo italiano).
Racconta tutto un ragazzino ebreo di nove anni. Si chiama Edgar, è nato nel Bronx come lo scrittore (classe 1931, i genitori erano emigrati a fine Ottocento dalla Russia), è affascinato dall’Esposizione universale di New York, anni 1939-1940. Il tema era “L’alba del nuovo giorno”: letto con gli occhi di oggi pare il titolo di un film post-apocalittico, allora voleva dire “crescita felice”, per scongiurare gli incubi della Grande depressione. Ai visitatori – furono in tutto 44 milioni – prometteva un magnifico viaggio nel futuro. Ecco il primo motivo per cui non avremo un grande romanzo sull’Expo milanese. Il secondo motivo, è che in Italia non abbiamo romanzieri bravi come Doctorow.
Bravi vuol dire bravi tecnicamente. L’ultima cosa che viene in mente pensando a un romanziere da classifica, titolare di molte storie diventate film: “Ragtime” (con James Cagney e Elizabeth McGovern, regia di Milos Forman) o “Billy Bathgate”, con Dustin Hoffman e Nicole Kidman. Doctorow sapeva far tutto: alternare i punti di vista, far scomparire il narratore che ogni cosa sa, prenderlo in giro quando serve, dilettarsi con il monologo interiore.
Sapeva far tutto quel che piace ai teorici del modernismo letterario senza però annoiare il lettore, o sfidarlo, o affaticarlo, o indurlo a mollare il libro per tornare ai classici che sono più divertenti. Con “World’s Fair” si esercitò pure nell’autofiction, che a noi sembra invenzione recente: al ragazzino Edgar si rivolgono con i loro commenti e i loro racconti altre persone di famiglia, e tutte hanno gli stessi nomi di papà, mamma, nonna Doctorow.
Non abbiamo scrittori così, che lavorano sei ore al giorno per scrivere 600 parole (più o meno la lunghezza di questo articolo) e non pensano che un romanziere debba avere uno stile: lo stile devono averlo i romanzi. I figli si lamentavano: “Papà sta sempre nascosto nei suoi libri”. Ed era perfezionista al punto da non riuscire a buttar giù in tempi ragionevoli una giustificazione: scrivendo e riscrivendo. Sotto gli occhi della figlia in ritardo per il pullmino, cedette la penna alla moglie. Pensava che la scrittura fosse l’unica forma di schizofrenia accettabile socialmente, e raccoglieva aneddoti sulle sofferenze degli scrittori. L’episodio di “Ragtime” – Theodor Dreiser che dopo l’insuccesso di “Una tragedia americana” sposta ossessivamente una sedia in una stanza vuota, come per allinearsi con l’universo – non è inventato, ma storia vera.
[**Video_box_2**]Siamo all’altra questione, che gli procurò nemici come John Updike e Gore Vidal. Doctorow scrisse per lo più romanzi ambientati nel passato – sul processo ai Rosenberg, accusati di essere spie russe; su New York ai primi del Novecento, tra architetti, ballerine, mariti traditi; sui giovanotti irlandesi che negli anni Trenta imparavano il mestiere dal gangster ebreo Dutch Schultz; sui fratelli Collyer che collezionavano spazzatura e morirono seppelliti da tonnellate di carabattole e vecchi quotidiani (quando Harlem era un posto da miliardari). Etichettarli come romanzi storici porta fuori strada, e non solo perché li abbiamo letti con piacere pur detestando il genere.
Doctorow era capace di inventarsi un incontro tra l’illusionista Houdini e il poeta Walt Whitman a bordo del Titanic: agli storici viene l’orticaria, i lettori godono. Inventiamo quando scriviamo “Caro diario” (oggi: con i selfie finto casual), perché non dovrebbe inventare un romanziere? Basta stare attenti alla punteggiatura: niente punti e virgola (“non servono a raccontare storie”) e niente virgolette, che sulla pagina “paiono cacchette di mosca”.