Estate sull'Oceano Padano
A letto presto e con le ante aperte. Un giorno questa noia mi sarà utile
Sulle isole dell’Oceano Padano la vita si svolge immutabile e ripetitiva, stagione dopo stagione, anno dopo anno, èra geologica dopo èra geologica. Ma è d’estate che questa eterna condizione, tutto sommato confortevole, si sublima in uno stato che eufemisticamente definirei di fossilizzazione: calcaree, minerali impronte di noi stessi riemerse dai tempi del lago Gerundo e del drago Tarantasio (qui una volta era tutta palude…), ci pietrifichiamo ciclicamente nel breve tragitto tra la ringhiera e l’aiuola, tra la sedia in plasticone del giardino e la rimessa degli attrezzi dietro casa – nel più stordente ottundimento generato da un sole biancastro che non perdona, e non tradisce le peggiori attese, climatiche e no.
Sono qui al paese da pochissimo, ma è come se non mi fossi mai mosso. L’effetto straniante del ritorno dura poco, si ripiomba immediatamente sotto il tiro del fuoco amico della consuetudine. Per evitare comunque pericolosi contraccolpi, preferisco, almeno nei primi giorni di degenza, cioè, volevo dire, di permanenza a Nosadello, non uscire dalla nostra particella catastale (il catasto magico della sedentarietà padana), dalla pertinenza di vuoto domestico che ci spetta.
Dopo lo sballo serale – alle otto e un quarto, finita la cena, sono fuori sotto il portichetto, fumo, accendo lo zampirone, fumo ancora, riattizzo lo zampirone, tolgo i piedi dalla cadrega per far sedere mio padre, succhio un ghiacciolo all’anice, fumo, do la decima sigaretta della giornata a mio padre che sta smettendo (di comprarle), saluto la sciura Rusina che sciabatta davanti al nostro cancello in campestre negligée (“Che cold, che cold, sa moeur, sa moeur”, che caldo, che caldo, si muore, si muore: la cantilena si disperde in un provvidenziale refolo di vento…), ammiro il trattore di ritorno dal turno notturno nei campi, fumo, valuto con cura l’orario notando che s’è fatto già tardi, il tempo ristagna quando ti diverti –, insomma, dopo tutto questo spensierato cumulo di eventi, viene fatale e liberatorio il momento di coricarsi.
La notte dormo con le ante aperte, “così passa un po’ il freschino”, impone mia madre; che, puntuale come un sergente, alle cinque e quarantacinque, scorgendo con l’ultravista da sotto la mia porta che mi ostino a tenere chiusa (“Se ta la tegnet serada, la fa no curent!”, se la tieni chiusa, non fa corrente!) il barbaglio del primo sole padano che schiere di contadini si appresta a schiantare anche oggi, si fionda in camera mia per chiuderle, le ante, se no entra il caldo, e il chiaro, e ti svegli. Infatti, così, mi sveglia lei, immancabilmente. Dopo altre due ore di sonno inquieto, rotolo giù da basso, nella casa deserta. Non c’è mai preparato niente per la colazione: tutto è in ordine, così geometricamente in ordine che sembra che qui non ci abiti nessuno. Intontito, in mutande e ciabatte da anziano, mi aggiro con sospetto davanti al frigo: anzi, al “frigor” o “frigus”, secondo la dizione locale. Sotto l’imprescindibile scorta di due chili di burro che occupano il primo ripiano, trovo poco di commestibile a quest’ora, se non del succo di frutta appena appena rancido che tracanno direttamente dalla bottiglia.
[**Video_box_2**]Inizia la mattina, lunghissima e fulminea, perché qui si mangia alle dodici, dodici e dieci se va di lusso. Mia madre rientra dalla spesa, sistema cose, mi dribbla mentre cerco il luogo meno caldo in cui permanere inerte nell’attesa del pranzo che verrà a interrompere il quieto rosario di ore sempre uguali – breve intervallo tra un nulla e l’altro da consumare seminudi, e semivivi. Mi attende ora l’infinito pomeriggio. Dalla finestra scorgo le cime dei pioppi, immobili moniti a non so cosa. E mi dico che un giorno tutta questa noia mi sarà utile.
Nel frattempo, però, mi accingo a rompermi sovranamente le balle.