La libertà religiosa à la saudita: frustate in pubblico ai blasfemi
Roma. Libertà religiosa, nell’oscurantista Arabia Saudita wahabita, significa “intensificare gli sforzi per criminalizzare chi insulta le religioni, i profeti, i libri sacri e i luoghi di culto”. E’ stato chiaro, intervenendo a un simposio internazionale ospitato in Francia e organizzato per discutere di giustizia, promozione dei diritti umani e dei princìpi di tolleranza nel mondo, il direttore per le relazioni esterne del ministero degli Affari islamici, Abdulmajeed al Omari. Non è la prima volta che Riad lancia campagne “pacifiche” contro la blasfemia, ammantando il tutto sotto il velo delle norme internazionali volte a combattere l’intolleranza etnica, religiosa e culturale ovunque nel mondo e trincerandosi dietro l’appoggio di qualche organizzazione internazionale più o meno legata alle Nazioni Unite. “E’ chiaro che la libertà di espressione senza limiti o restrizioni porterebbe a violare e abusare dei diritti religiosi e ideologici”, ha aggiunto. Nessuna parola, ça va sans dire, al Omari l’ha pronunciata sulla condanna a mille frustate, dieci anni di galera e 200 mila euro di multa comminata al blogger Raif Badawi, arrestato nel 2012 con l’accusa di apostasia per aver “diffuso il liberalismo” in patria e di aver contestato alcune decisioni della magistratura locale perché “troppo ispirate alla sharia”.
Nessuna menzione, poi, della procedura – assai poco consona al diritto internazionale che il funzionario saudita ha citato nel suo discorso in terra francese – che sarà seguita per dare attuazione alla sentenza: per diciannove settimane, ogni venerdì il condannato inginocchiato sarà frustato mentre la folla, davanti a lui, urlerà “Allah u akbar”. La schiena di Badawi ha già patito alcune razioni di frustate, tant’è che è difficile oggi dire quanto manchi all’espletamento della pena corporale. Per il resto c’è tempo, ancora sette anni prima che il blogger possa tornare a circolare libero. L’ultimo ad aver messo pubblicamente in evidenza la contraddizione dell’atteggiamento saudita era stato, qualche mese fa, il cancelliere austriaco Werner Faymann: “Non è possibile avere qui un centro che si ripromette di favorire il dialogo interreligioso quando, nello stesso tempo, chi è impegnato in quello stesso dialogo è in prigione. Un centro che rimane in silenzio quando si deve gridare in favore dei diritti umani non è degno di essere definito centro di dialogo”. Il centro in questione è quello intitolato al re Abdullah, con sede a Vienna, che s’era rifiutato di condannare la pena inflitta a Badawi. Al Omari, a ogni modo, ce l’aveva in particolare con il governo islandese, che solo qualche settimana fa ha approvato una legge che – a giudizio delle autorità saudite – di fatto legalizza la blasfemia. A Rejkyavik, d’ora in poi, si potrà dire ciò che si vuole riguardo qualsiasi culto senza rischiare di finire nei guai con l’autorità giudiziaria locale.
[**Video_box_2**]Chi invece ha compiuto passi più concreti – e meno ambigui – sul fronte della tolleranza religiosa sono gli Emirati Arabi Uniti. Qualche giorno fa, il presidente Sheikh Khalifa bin Zayed al Nahyan aveva annunciato che era stato approvato un pacchetto di provvedimenti in conseguenza dei quali “è vietata la discriminazione sulla base di religione, casta, credo, dottrina, razza, colore, origine etnica”. L’aspetto più originale delle nuove leggi è relativa alla punizione prevista per chi bolla come “infedeli” gli altri. Secondo la sharia, infatti, l’infedele (takfir) o miscredente (kafir) può essere eliminato. “Secondo la legge islamica io non posso uccidere un cristiano o un ebreo, che vivono come protetti. Ma posso uccidere un pagano, un ateo”, ha spiegato l’islamologo Samir Khalil Samir, pro rettore del Pontificio istituto orientale di Roma, aggiungendo in un commento per il portale AsiaNews che “l’islam non dà mai la parità” e parlare in questo caso di anti discriminazione “significa che si dà parità, è superare un concetto totalitario”. Nella legislazione emiratina non mancano i punti oscuri – come il divieto per un musulmano di cambiare religione e la proibizione per i non musulmani di fare proselitismo – ma nel panorama degli stati del Golfo è una sorta di oasi di tolleranza, se si considera che in tutto il territorio nazionale sono presenti ventiquattro chiese aperte al culto.