Il tempo dei nonni
C’è il nonno che ogni giorno alla mezza apparecchia la tavola sempre con gli stessi piatti perché dagli anni Trenta in poi, nella sua Romagna, è quella l’ora in cui mangiare, e basta. C’è il nonno che a Milano tutte le mattine compra tre quotidiani, sempre gli stessi, perché è stato per quarant’anni un giornalista e a te che non sai neanche leggere dice che le campane da sentire sono almeno tre, punto. C’è la nonna giovane che a Ferrara non sembrerà mai nonna neanche da bisnonna, da quanto è stata mamma-bambina, con storie di guerra e di dolore, ma sempre con pettinatura a posto. E c’è la nonna altoborghese che balla il cha-cha-cha in un’anticamera Belle Époque a Brera e non sopporta di stare in casa per più di due ore di seguito – e anche se se n’è andata quando la nipote non aveva neppure quattro anni, la sua smania di uscire chissà come è riuscita a passargliela, anche se poi si rintanava per discrezione quando la zia scendeva per incontrare un fidanzato segreto, forse sposato, forse ricco, forse straniero e lei, la nonna, si sporgeva dalla finestra fin quasi a cadere per vederlo di sguincio. Poi c’è il nonno-non nonno, il padre che a essere davvero nonno non ha fatto in tempo e non c’è più, pur essendo già nonno con i figli e a prescindere, con poca voglia di sgridare e molta voglia di mangiare arrosti e la mania di inventare giochi di pirati con i cuscini e la pazienza di portare la figlia con il trio di amiche al famigerato luna park, inferno di zucchero filato e tavole rotanti con musica a palla. E alla fine i nonni, quelli vivi e quelli non vivi, sembrano avere tutti lo stesso segreto, compresi i bisnonni conosciuti e non conosciuti – la bisnonna Cesarina con la sua treccia grigia da emiliana operosa, merciaia di paese per necessità, e il bisnonno Giacomo intellettuale del sud, a volte pigro a volte geniale nel procurare stoffe per la moglie suddetta, e la bisnonna Maria, quella che veniva dal Belgio e aveva gli occhi azzurro-mare che nessuno ha preso, tranne suo figlio Enrico, il nonno dei giornali da cui tutti, a turno, hanno sperato di ereditare, per i propri figli, quel meraviglioso colore d’iride (“beh sì, è un carattere recessivo, ma salta una generazione”, ho sentito dire da tutti i parenti quando gli occhi di mia figlia neonata a un certo punto sono parsi blu, e invece erano i soliti “occhi da latte”, quelli che poi diventano inesorabilmente marroni). E a un certo punto attorno agli occhi azzurri del nonno Enrico si era sviluppata una leggenda, e qualcuno ci vedeva anche un presagio e la conferma del carattere (“di ghiaccio, però sincero”).
Ma il segreto dei nonni non sta negli occhi, non sta nelle trecce, non sta nei tic adorabili della nonna-bisnonna, fumatrice a quasi 94 anni e puntuale bevitrice di aperitivi delle sette. Il segreto che li rende tra loro simili è un altro, e cioè che l’essere nonni è prima di tutto una questione di come si sta nel tempo.
Stare nel tempo come un nonno. Magari. Magari esserne capaci prima, quando si è genitori e figli, ci si è detti nei momenti di smarrimento acuto, guardando l’effetto che fa l’essere nonna su mia madre, una che per il resto, quando non è con la nipote, sta nel tempo della vita come tutti, cioè, forse, senza quel di più di attenzione ed energia per accorgersi sempre di quello che sta succedendo mentre ci si danna e ci si affanna. Invece i nonni si accorgono. Si accorgono di cose di cui da genitori non si accorgevano. Piccole cose impercettibili che del nipote a loro si svelano, e a nessun altro. Si mettono in ascolto, da nonni, fanno fuori in un attimo le loro precedenti e attuali abitudini e attitudini, sospendendole per sempre o per il tempo dell’esser nonni, e improvvisamente capiscono, e si fermano – loro, gente che mai si era fermata un attimo – e cominciano a parlare lo sconosciuto lessico a due con i nipoti. Ogni coppia nonno-nipote ne ha uno, di lessico, lessico irripetibile e rito irripetibile, e infatti mai la nonna che è stata mamma-bambina sarà bisnonna con mia figlia come è stata nonna con me, intanto perché quando era nonna non c’era il telefonino, il nuovo utilissimo marziano da cui, per un periodo, con “memoria selettiva”, dice, sapeva mandare persino gli sms, ma poi ha dimenticato come fare. Ma non importa, perché intanto le sono tornate in mente le favole di tale Mingòn, lo scemo del villaggio, saga tramandata oralmente negli anni Venti e Trenta dalle donne della sua famiglia, nella sua Emilia-Romagna, e solo lei se le ricorda, le avventure di Mingòn, solo lei le racconta alla bisnipote che ascolta rapita, e a volte si addormenta. Di fronte a Mingòn non c’è “Frozen” che tenga, come di fronte al “Pinocchio” rilegato e consunto del nonno dei giornali, a Milano, a Natale, negli anni Ottanta, non c’era Topolino o principessa che tenesse.
C’è stato un tempo in cui era soltanto una nonna giovane nata nel 1921, la bisnonna quasi novantaquattrenne che ha visto due secoli e una guerra ed è passata dalla totale assenza di elettrodomestici alla lavatrice al fax allo smartphone e oggi non vuole restare a casa quando tutti vanno al mare – “e perché ci devo stare se mi annoio?”, dice, forse anche perché quando era giovane al mare ci si andava poco, due giorni in Riviera adriatica e poi a casa, o sul piroscafo in viaggio di nozze una volta nella vita, ma adesso il tempo della nonna-bisnonna è il nostro, anche se a suo modo, e la domenica lei si mette, cascasse il mondo, il costume elegante, quello un po’ da crociera, e si fuma la sigaretta in spiaggia, senza muoversi, senza più andare in pattino come faceva con suo marito, strano caso di perfetto marinaio che non sapeva nuotare, ma sapeva insegnare a remare all’indietro e a spinare il pesce alla nipote renitente di cinque anni.
Quando era soltanto nonna, la nonna-bisnonna era diversa dagli altri nonni degli anni Ottanta, quelli che andavano a prendere a scuola i nipoti (non le pecore nere prese dalle baby-sitter). Era ex maestra, la nonna, e dunque connessa in qualche modo a quelli che venivano chiamati i “giovani”, ed era l’unica, tra le nonne, forse anche perché in visita a Roma da forestiera, a non scandalizzarsi poi così tanto per quei programmi “Bim bum bam” arrivati sulla nuova televisione a colori della compagna di scuola della nipote, la figlia dell’ingegnere, invidiatissima dalla nipote per quella casa con i quadri severi e il parquet e le abitudini regolarissime, così diverse da quelle della sua famiglia un po’ pazza di gente con figli ma non sposata – e questo era il meno. Da non sposata si era infatti separata, la coppia genitoriale, e la figlia dei separati non sposati si era trovata il primo giorno di scuola elementare ad ammetterlo, serena e ancora ignara delle conseguenze, in quell’aula di scuola pubblica, in un giorno di settembre del 1979: sono io, sì, la figlia dei separati non sposati, aveva detto, subito additata in bagno da una compagna, e chissà che cosa aveva pensato a suo tempo il nonno del pattino, di questa scelta, si era domandata poi, guardandolo con sua madre, per lui imperdonabilmente sessantottina ma in fondo non così scapestrata: la figlia con cui aveva molto discusso ma da cui, sotto sotto, era stato molto ascoltato. Quando arrivava a Roma da Ferrara, la nonna-bisnonna, guardava tranquilla i cartoni animati con la nipote, cartoni animati giapponesi con troppi “innamorati”, diceva, e a quel punto le veniva sempre in mente di quando aveva portato sua figlia a vedere “Via con Vento”, e le aveva coperto gli occhi perché Rossella O’Hara e Rhett Butler si baciavano – uno dei baci più belli dello schermo.
Stare nel tempo come i nonni al cinema, e starci a lungo, nei pomeriggi anche noiosi di vacanza, da nipote unica di nonni e zii, fino alla nascita del fratello di quindici anni più giovane: stare coi nonni nel tempo dei nonni, al mare, nella cabina dello stabilimento, ad aspettare di poter fare il bagno dopo aver digerito – incubo con sottofondo di cicale – e ricordarsi di quanto era moderna la bisnonna del “Tempo delle mele”, film cult per ragazzini anni Ottanta (perché a me pareva che la mia, di nonna, assomigliasse molto, nello spirito, a quella bisnonna). Le si poteva raccontare tutto, anche se faceva finta di scandalizzarsi, e anche lei forse avrebbe spaccato la vetrina di una profumeria con l’ombrello, all’occorrenza, per difendere l’onore della famiglia, tanto era imprevedibile come quella del film: si era scoperto un bel giorno che la nonna, apparentemente d’accordo su tutto con l’amatissimo marito cattolico, aveva votato diversamente da lui ai referendum sull’aborto e sul divorzio, e da allora ammirava molto Emma Bonino, pur avendo in vita sua messo la croce sul simbolo Dc innumerevoli volte. Le si potevano e le si possono raccontare amori e dolori, alla nonna-bisnonna, e lei sempre si fermerà a pensare, come se la risposta troppo rapida non fosse contemplata, e poi sempre risponderà a suo modo e a suo tempo, cioè con una lettera scritta a mano, dove avrà copiato a mano un testo preso da qualche libro di poesia perso negli scaffali: per ogni problema e per ogni consiglio la strofa di poesia giusta. Poi mette la lettera nella borsa della nipote di soppiatto, dicendo “leggila quando hai un minuto”, ed è una frase che secondo lei dovrebbe illuminare, anche se sua figlia le dice “basta mamma, sono tutte cazzate”, perché essendo figlia non ha la pazienza che i nipoti hanno col nonno, ché il tempo dei nonni e dei nipoti è un tempo di relazione: scorre più lento e diverso quando sono insieme, quando si parlano senza che nessuno dei due debba sgridare, avvertire, educare o criticare l’altro – cosa impossibile nel rapporto genitori-figli e figli-genitori – e si ritrovano a soffermarsi sui dettagli che resteranno nella vita, con confidenze e risate tutte loro, da cui i genitori sono esclusi. Ed è un tempo comune che produce piccoli scarti, e piccole ironie della sorte. C’è stato infatti un giorno, nella famiglia di mezzi pazzi non sposati e separati e poi allargati ad altre famiglie, sposate e non, in cui il nonno dei giornali, preparando l’albero di Natale con la nipote arrivata da Roma con il treno non ancora Frecciarossa, quello degli emigranti al contrario che durante le festività salivano al nord, si era liberato improvvisamente del solito razionalissimo aplomb inglese, innato ma aggravato da quando era stato corrispondente a Londra, nella casa di Cadogan Place con le scalette e la porta blu degli inglesi veri, e si era commosso senza motivo di fronte al presepe: “Ma perché lo fai, nonno, se sei ateo?”. “Tua zia ci tiene, e alla fine a me che fastidio dà?”. E però poi è l’essere stato un po’ inglese che resta di lui, anche per chi era troppo piccolo per viverlo dal vivo: mio fratello il nonno dei giornali lo ricorda poco, ma il codice segreto nonno-nipote ha funzionato lo stesso, e un giorno di pochi anni fa l’ormai anziano ristoratore italiano del locale di Londra dove andava sempre l’Enrico-nonno inviato-dagli occhi blu ha voluto offrire il pranzo al giovane sconosciuto che si presentava con quel cognome, e gli ha raccontato storie che le sorelle maggiori e i figli e le madri avevano ascoltato distrattamente, scene di vita londinese anni Cinquanta-Sessanta, con il nonno e la nonna che invitavano gli altri corrispondenti stranieri a provare l’allora appena aperto locale a due passi da Harrod’s, e l’allora giovane proprietario si faceva un nome nel demi-monde giornalistico che contava grazie a quella coppia di milanesi, mai dimenticati e sempre ringraziati, anche a costo di farlo ex post, attraverso due generazioni.
Stare nel tempo come un nonno: può succedere anche agli auto-denominati “nonnastri”, i compagni dei nonni, anche se sono soltanto loro a chiamarsi così. La nipote di quattro anni li chiama infatti sempre e comunque nonni, perché li vede nonni, e tu li vedi muoversi al tempo dei nonni solo con lei, che di nonni veri non ne ha conosciuti due, e allora, si pensa a volte, bisogna inventare delle favole per farglieli conoscere almeno come personaggi: “C’era una volta il nonno che prendeva il canotto e ci metteva un sacco pieno di panini per andare a fare il bagno nella spiaggetta dietro agli scogli, e però poi il canotto si è bucato, e la zia si è buttata in acqua per riprendere la focaccia al prosciutto mezza-affogata”, ma la bambina ha capito subito che la storia non era inventata bensì vera, e dopo quella prima puntata, nelle sere d’inverno, si è messa a chiedere, dopo la favola letta sul libro, “un pezzettino di storia vera del nonno”, di cui ancora non sa di poter ascoltare la voce (lui era doppiatore, e potrà ancora avere con lei il suo tempo da nonno, anche se solo in un film).