Nato il 5 ottobre del 1911 a Bay City, in Texas, Bess tollerava a stento gli espressionisti astratti: loro avevano successo, lui no (foto tratta da "Forrest Bess: Key to the Riddle" di Chuck Smith)

Il visionario mutilato

Sofia Silva
Storia di un viaggio Milano-Houston, tra carne secca e crolli nervosi, per ritrovare Forrest Bess, pittore evirato e cantore della schizofrenia del sogno americano.

Bess il pescatore, Bess il soldato, Bess l’evirato, sentivo che dovevo a tutti i costi camminare là dove aveva camminato Forrest Bess, il grande pittore che da tempo invadeva i miei sogni e quelli di centinaia di giovani artisti americani. I musei italiani non ospitano una sola tela di Forrest Bess, né sono mai state organizzate mostre che abbiano coinvolto opere del grande maestro texano; un crimine contro l’America? Contro la pittura? Contro l’arte? No. Un crimine controvoglia.

 

Compivo vent’anni, per festeggiarli i miei genitori mi comprarono un marsupio da pancia e uno da polso; li riempirono di dollari, vitamine alla frutta, antistaminici e di quindici fotocopie del biglietto Milano Malpensa-Houston. Avevo finalmente ricevuto il permesso per andare a trovare Forrest Bess e, di striscio, anche Irving Sorola, un mio amico di penna e di pennello; pure lui compiva gli anni, sette più di me. Irving mi aveva spedito una foto in cui stava sdraiato su un’amaca; era gracile, pallido, articolazioni slegate. Succhiava una radice di liquirizia all’angolo della bocca, con una mano si massaggiava le scapole, con l’altra coccolava un cagnetto appisolato sulla sua pancia. Era un romantico esistenzialista, ostile ai social network; nelle nostre lettere, che parlavano esclusivamente di pittura, cerchiava le macchie d’inchiostro a matita e di fianco scriveva “tear”, lacrima. I miei genitori disapprovavano la sensibilità di Irving, secondo i loro piani avremmo dovuto conoscerci, farci vicendevolmente schifo e virare ciascuno verso altri lidi; sarebbe dovuta restare un’amicizia esclusivamente omeopatica. Irving disapprovava l’Europa, era certo che Rodin fosse niente in confronto ad Augusta Savage, nata in Florida; Klee un pivello dinanzi ad Alma Thomas, nata in Georgia; Tiziano un manicheo se paragonato a Richard Diebenkorn, nato in Oregon. “Amerika”, così firmava le sue lettere.

 

I miei mi portarono all’aeroporto della Malpensa. Mio padre taceva, di tanto in tanto controllava sullo smartphone se era vero che per andare in Texas non servivano vaccinazioni, mia madre dispensava ammonizioni da sofista del tipo: “Se hai paura, abbi coraggio”. All’imbarco bagagli cominciai a pensare al Texas. Fluttuava nella mia mente un immenso neon rosso e lampeggiante con la scritta BEEF JERKY. Il jerky è carne salata, essicata per giorni interi al sole; manzo, montone, bisonte, in bustine da venti, trenta pezzi, si mangia con la facilità di un pacchetto di pop-corn. In Texas avrei mangiato beef jerky a tutte le ore del giorno: latte, cereali e beef jerky, Coca e beef jerky, cupcakes e beef jerky. Il jerky si addenta con gli incisivi da un solo lato, io uso quello destro, per poi strapparlo delicatamente dal resto del boccone e masticarlo con violenza. Sbranare jerky dà l’entusiasmante sensazione d’essere un uomo di Cro-Magnon, un leone, una iena. La seconda cosa che sapevo del Texas era che si trattava della patria di Roy Orbison. Mi sarei seduta al limitare di una strada di provincia mangiando jerky e ascoltando “Pretty Woman” e “It’s Over”.

 

Appena sbarcata all’aeroporto George Bush di Houston arrivò una telefonata di mio padre. “Come va?”, mi chiese. “Benissimo”, dissi – ed era assolutamente vero. “Sto proprio bene”. Silenzio dall’altra parte, poi: “Sei sicura?”. “Certo che sì”. “Ci credo cara, che ne dici se mamma e io prendiamo l’aereo stasera e veniamo a trovarti? Eh, che ne dici?”. “Dico noooooo”.

 

Irving mi aprì festante la porta di casa, dopo pochi minuti si strinse le tempie con le mani. “Cazzo Sofia dobbiamo andare via, dobbiamo andare via”. “Via dove?”, gli domandai. Mi chiese scusa e si buttò sulla poltrona con un sorriso un po’ sperduto in faccia. Irving mi disse di essere cosciente del suo problema, attribuiva la colpa al caldo. Era vegetariano, addio beef jerky. Ascoltava solo jazz sinfonico, addio Roy Orbison. Mi fece scoprire un Texas di giovani che cercavano d’imporsi nell’artworld locale con performance dove denunciavano il loro odio per: petrolio, Congresso, Food and Drug Administration, Gagosian, Taco Bell, il Nasdaq e soprattutto per il sindaco della propria città, la poderosa Houston. Tutto ciò mi lasciava perplessa. Ogni volta che mi accigliavo Irving sudava freddo pensando di deludermi; credeva che, se mi avesse deluso, suo padre, un famoso neurologo, ne sarebbe rimasto a sua volta deluso e che se suo padre avesse provato delusione anche due italiani sarebbero stati molti delusi, in quel di Padova, all’ombra degli Scrovegni, dall’altra parte del mondo. Optò per una scelta drastica: “Andiamo a vedere roba buona”. Mi caricò in macchina.

 

Arrivederci Houston, ora siamo a Bay City, anzi a 32 chilometri da Bay City: la baia di Matagorda. Tanta polvere, il mio gomito sporgeva dal finestrino, Irving guidava con una lentezza esasperante, tenevo gli occhi chiusi e mi concentravo sui lampi e le macchie di luce. Schiacciando le pupille con le dita mi appariva un mondo favoloso. Non ero l’unica appassionata di fosfeni retinici, anche Forrest Bess lo era stato, e sicuramente i suoi mondi erano ancora più favolosi. Eravamo arrivati, una distesa di stagni a pochi metri dal mare, quaranta anni prima Forrest sedeva tra quegli stagni, il bicchiere di whisky in mano, scarpe luride, gracidio di rane; chiudeva gli occhi e contemplava i fosfeni.

 

Quando riaprii gli occhi, Irving mi stava indicando con insistenza un limaccio di fronte a noi. “Quello era il punto di osservazione dove Forrest Bess poggiava il cavalletto. Mentre quello là – spostava l’indice verso un acquitrino pressoché identico – era il suo punto di contro-osservazione”. Mi guardava preoccupato, avrei voluto ridergli in faccia ma il momento era troppo solenne. Irving si portò nuovamente le mani alle tempie. “Scusa, scusa, scusa”. “Sai – gli dissi dolcemente – dovresti migrare a nord, qui fa troppo caldo”. Irving si sedette sul fango e pianse, mi allontanai in silenzio.

 

Negli anni Venti del secolo scorso il padre di Forrest Bess, Butch Bess, masticava tabacco e trivellava. Si spostava di soppiatto per i campi di granoturco intorno all’area di Matagorda e, proprietà pubblica o privata che fosse, trivellava. Lo guardavano a qualche metro di distanza la moglie Minta Lee, il figlio Forrest e la banda di orsetti lavatori che fedele li seguiva per mangiare a sbafo. I Bess s’iniettavano antirabbica a go go. Il petrolio a Matagorda: c’era? Non c’era? Si aveva fiducia. Come di frequente capita ai pittori da bambini, il giovane Forrest soffriva di allucinazioni: spesso avvistava un leone tra le piante di sorgo; l’animale ricambiava il suo sguardo. In un giorno d’agosto del 1928, mentre Minta Lee si depilava le gambe e Forrest incendiava il cadavere di una mosca, Butch trivellò nel posto giusto. Diventò ricchissimo nel giro di due anni per spendere tutto in donne, titoli e automobili nel giro di due mesi. Bancarotta; ma dai padri in bancarotta nascono i migliori artisti, mi ripete sempre mio padre accarezzandomi la testa. Per di più Forrest, finita la scuola, pronunciò le terrorizzanti parole: “Mamma voglio fare il pittore”; povera Minta Lee, aveva dato alla luce un texano patito di Van Gogh. Forrest Bess si arruolò nell’esercito nel 1941. A quel tempo l’esercito funzionava così: “Vuoi fare l’artista? Vuoi veramente fare l’artista? Allora pittami ’sto camouflage”. Dura vita quella degli artisti in guerra. Ne parla Kurt Vonnegut nel romanzo “Bluebeard”: il protagonista Rabo Karabekian, pittore armeno misantropo incazzato a morte con gli espressionisti astratti, perde l’occhio sinistro comandando un plotone mimetico di artisti surrealisti, paesaggisti, dada, accademici, stipati in un unico camion.

 

Come l’eroe di Vonnegut, anche Bess tollerava a stento gli espressionisti astratti, Pollock, de Kooning, Clyfford Still e compagnia: loro avevano successo, lui no. Gli espressionisti astratti erano Mean Girls, Queen Bees, T-Birds, i bulli, il male. Forrest capì di non essere portato per la guerra: durante le esercitazioni vedeva leoni, ideogrammi e ammiccanti ippopotami. Tornò a Matagorda nel 1947, a Chinquapin Road, in quello stesso stagno dove, trent’anni dopo, Irving avrebbe schiacciato zanzare mentre io mangiavo vitamine alla frutta, cercando di non ridergli in faccia. In una notte in cui la brezza del Golfo spirava più forte, Forrest Bess impugnò un bisturi e si aprì una fistola tra il pene e lo scroto. Seguiva le indicazioni dell’illuminato endocrinologo australiano Eugen Steinach: per rendere immortale il proprio corpo bisognava raggiungere l’uretra, annodare il dotto deferente, era necessario che il seme tornasse indietro, che defluisse sino alle cuticole delle unghie, sino ai capillari degli occhi. Tra sorghi e stagni, mentre la luna brillava e le rane cantavano, Forrest Bess si mutilò diventando così uno pseudoermafrodito immortale. Scriveva lettere a Carl Gustav Jung e viveva di pesca. Gli venne un cancro al naso, si tagliò il naso; gli venne un cancro alla pelle, corse dalla madre. L’America cominciava a scoprire i suoi dipinti, lui vagava nudo per le strade di San Antonio, finché un giorno morì.

 

Gli stagni ci rendevano inquieti: io guardavo il cielo, Irving si grattava la testa. Ci era venuta la febbre, tornammo a Houston. Il Museo di Belle Arti ospita “Untitled 11A”, uno dei capolavori di Bess. Tre righe a bande bianche e blu, slittate di qualche centimetro l’una dall’altra, occupano gran parte del quadro; l’estremità superiore è invece percorsa da una striscia rossa macchiata di piccole onde nere in cui Forrest Bess vedeva i legni trasportati dall’acqua. E’ un quadro bollente che riprende le cromie di un piccante piatto di chili, della bandiera del Texas, degli affreschi di Teotihuacán; anche un occhio europeo può trovarvi punti di riferimento: quel blu e quel bianco mi ricordavano i pedalò della riviera adriatica. La precisione delle campiture farebbe sfigurare quella di un cartello stradale, se non fosse per il gioco ottico che ne fa oscillare le linee. Le bande bianche e blu ci arrivano tremanti, immagini che hanno attraversato la luce rifratta dall’aria bollente; una sensazione attivata dal rosso e dal nero sovrastanti. Nelle sue torride notti, Bess pensava a come dipingere la sua pelle scottata. Su questo pensiero planavano i corvi di Van Gogh e si trasformavano nei pezzi di legno portati a riva dall’oceano. Davanti a “Untitled 11A” Irving ebbe un altro leggero crollo nervoso. Il quadro gli ricordava una sua tela che, cercando di raggiungere la perfezione, aveva sfigurato con una pennellata non necessaria. Si diceva in lutto per quella tela. Ci spostammo di qualche metro e raggiungemmo un altro Bess, un prestito del MoMA: rotaie scure, striate di giallo, sfumavano in lontananza nel cielo incandescente. Ancora una volta Irving non trattenne il pianto. “Ma come fai a essere un pittore?”, chiesi brancolandogli dietro mentre cercavamo di uscire dal museo; mi sentivo male anch’io, i grassi idrogenati del Texas roteavano per il mio corpo. “Non lo so. Scusa, scusa, scusa”.

 

Per guardare i dipinti degli artisti outsider, di quegli uomini e donne che si sono fatti portavoce di mondi fuori dal mondo, bisogna strizzare gli occhi e calarsi nei loro panni. I panni di Forrest Bess: da giovane copiava riproduzioni di Van Gogh e si bagnava in quel lembo di oceano che 300 miglia più a sud lambisce le spiagge del Messico più isterico, selvaggio, precolombiano. Se guardi un Van Gogh mentre il sole picchia a 50 gradi tra i sorghi abbrustoliti e la trivella di tuo padre supera i 100 decibel, per non soccombere è giocoforza concentrare lo sguardo sul blu oltremare e sul verde cobalto, e immaginare che siano una birra ghiacciata. Per i primi anni i quadri di Bess furono superfici ustionate e pennellate da un Van Gogh che, grondando sudore, cerca di finire il quadro il prima possibile. Le più umide tra le tele del maestro olandese, “I mangiatori di patate”, diventano nelle rivisitazioni di Bess centrali petrolchimiche seccate dal giallo di cromo e dalle lacche rosse.

 

Qui lo scandalo, la menzogna, l’inghippo. Gli storici dell’espressionismo astratto catalogano tutto in pre e post Pollock, nessuno può stargli alla pari. Meraviglioso il dripping di Pollock che tiene l’avambraccio teso ai limiti della paralisi, che piega le gambe mantenendo ogni volta la medesima angolazione: la sua era una danza, una performance, di cui la tela… non è altro che spelacchiata testimonianza. Jackson Pollock troppo presto abbandonò i brillanti quadri ispirati alla cultura degli indiani Navajo. Le tele del Pollock della maturità, ubriaco e misogino, sono la pelle del leone appesa nel salone della villa dopo un safari, ma il leone dov’è? Dov’è Pollock? Dov’è la sua carne, il suo sangue, il suo sguardo, la sua zampata? Sono tele da stendere a terra per guardarle con occhi bassi, stando attenti a non calpestarle, e finendo per calpestarle, appese al muro fanno solo la parte del trofeo di caccia. Nessuno può stargli alla pari? Gli storici dell’espressionismo astratto non si accorsero, e ancora non si accorgono, che nel 1934 a Morelia, Messico, Forrest Bess, Philip Guston e Reuben Kadish s’incontrarono davanti alla residenza estiva dell’imperatore Massimiliano I. La pittura diventò un’altra: per la prima volta nella storia dell’arte questi pittori scelsero di scrivere l’epopea americana esponendosi al pubblico ludibrio, cavalcando l’asino delle proprie piccole vergogne. Non più paesaggi, scene corali, ritratti di potenti e di battaglie, Guston e Bess presentavano intimi cerimoniali della loro quotidianità, rovesciavano le dubbie visioni dal dentro al fuori con quello stesso movimento con cui, nella Cappella Sistina, San Bartolomeo scorticato mostra la ciondolante pelle. Guston dipingeva buffi Ku Klux Klan tra affastellamenti di ciliegie, scalette e oziosi polifemi. Bess si proponeva come cantore della schizofrenia fosfenica retinica. Era l’America, quella del Sud, quella di Carson McCullers e di William Faulkner.

 

Due anni fa fui di nuovo ospite di Irving. Era diventato bellissimo e aveva seguito il mio consiglio, si era trasferito dal Texas a Nord, nel New Jersey; continuava a sentirsi perseguitato da fantasie di morte. Si aggrappava alle persone che bussavano alla sua porta come se al posto dello zerbino ci fossero le sabbie mobili. Varcai la soglia di casa trascinandomi dietro un trolley pesantissimo; Irving non alzò un dito per aiutarmi, ma con occhi più spenti che se avesse avuto le cataratte disse in un fiotto d’aria: “Sposami”. Mi chiusi nella mia stanza. Ordinammo cibo d’asporto, invitò il fattorino a entrare; il fattorino disse no. Arrivò la domestica, le propose di bere un caffè con noi; la domestica rifiutò. Chiamò suo padre chiedendogli di passare qualche giorno da noi; il padre declinò. “Non ti vuole nessuno”, commentai.

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