Privacy all'italiana
Roma. Non solo “privacy” è parola inglese. Furono i due giuristi statunitensi Louis Brandeis e Samuel Warren nel 1890 a definire “the right to be alone”, il diritto a essere lasciati in pace, in un articolo sulla Harvard Law Review che si intitolava appunto “The Right to Privacy”. Nel sistema di Common law, la stessa Corte suprema degli Stati Uniti considera quel saggio come una vera e propria nuova legge, in risposta a una serie di sviluppi che andavano dall’impetuoso sviluppo della stampa sensazionalistica all’introduzione in commercio nel 1884 della Kodak Brownie.
La Corte di cassazione italiana, al contrario, ancora nel 1956 cassò, appunto, il ricorso in tribunale dei figli e nipoti di Enrico Caruso per il film “Leggenda di una voce”. Spiegò infatti l’Assise che “nell’ordinamento giuridico italiano non esiste un diritto alla riservatezza, ma soltanto sono riconosciuti e tutelati, in modi diversi, singoli diritti soggettivi della persona; pertanto non è vietato comunicare, sia privatamente sia pubblicamente, vicende, tanto più se immaginarie, della vita altrui, quando la conoscenza non ne sia stata ottenuta con mezzi di per sé illeciti o che impongano l’obbligo del segreto”. In seguito, va detto, la giurisprudenza italiana è sensibilmente evoluta. Ma tuttora Giovanni Maria Flick, già ministro e già presidente della Corte costituzionale, spiega che la legge consente la diffusione della registrazione di conversazioni tra privati, e l’Autorità nazionale magistrati dice addirittura che la lotta alla mafia è a rischio se nella nuova legge verrà inserito il divieto a pubblicare materiale audio-video raccolto all’insaputa dell’interlocutore.
E’ vero che viviamo ormai nell’epoca di Facebook. Nel 2010 proprio Mark Zuckerberg spiegò: “Il concetto di privacy che ho io non è lo stesso che ha mio padre ed è diverso anche da quello di una ragazzo di quattordici anni. Sei anni fa nessuno voleva che le proprie informazioni personali fossero sul web, oggi il numero delle persone che rende disponibile il proprio cellulare su Facebook è impressionante. Per i miei genitori la privacy era un valore, per i miei coetanei condividere è un valore”. Nel contempo, i sondaggi dimostrano come gli italiani siano più preoccupati dei problemi della privacy che in passato. Ma se la globalizzazione appiattisce certe differenze, nondimeno un fondo antropologico anti privacy in Italia è ben documentato. Già i viaggiatori stranieri dei tempi del Grand Tour testimoniavano infatti sulla maggior disponibilità degli italiani a “vivere in pubblico”, attribuendola al clima, e parlandone peraltro in modo ammirato. “Tutta la struttura della società italiana è venuta fori dalla necessità di un popolo originariamente socievole che da secoli si gode di una raffinata e colta socialità”, scriveva ad esempio nel 1847 la tedesca Fanny Lewald in “Album italiano”, appena ripubblicato. “Gli inglesi che amano consumare il loro mezzogiorno da soli in un salottino chiuso non avrebbero mai fatto dei loro teatri dell’opera un salone come gli italiani e mai inventato una passeggiata per il Corso nel modo in cui la fanno gli italiani”.
[**Video_box_2**]Proprio perché l’epoca di Facebook, dei reality e dei selfie è stata anche interpretata come “teatralizzazione della vita”, è forse interessante allora ricollegare quel riferimento al teatro dell’opera al passo con cui Indro Montanelli, nell’“Italia del Seicento”, chiudeva il capitolo dedicato a Claudio Monteverdi: “E’ difficile stabilire se il melodramma nacque in Italia perché gli italiani sono melodrammatici, o se gl’italiani sono melodrammatici grazie al melodramma”, osservava. “Comunque mai identificazione, fra una forma di teatro e un costume di vita, fu più perfetta. Tra quei fondali di cartapesta il nostro popolo riviveva gli unici eroismi di cui fosse ancora capace. Sull’esempio dei loro protagonisti imparò o ribadì la sua vocazione a urlare le proprie sventure, a piangersi addosso, a farla da ‘mattatore’ in mezzo alla scena”. Appunto, il gusto di buttare tutto in piazza.