Una scena del film "Secretary"

Ma quale gender equality, i millennial americani vogliono il capo maschio

Simonetta Sciandivasci
Secondo un recente studio di Harvard, gli adolescenti, tanto maschi quanto femmine, continuano a preferire gli uomini ai posti di comando. Il cambiamento di stato dei pregiudizi "sessisti", insomma, sembra non essere avvenuto, nonostante il discreto numero di anni dedicati all’educazione alla parità e alle virtù delle donne manager.

Quando si accuccia per farsi sculacciare dal suo capo, in “Secretary” (film del 2002), Maggie Gyllenhaal ha il volto illuminato dalla soddisfazione che Emma Bovary si suicidò per non essere riuscita a trovare. La stessa luce che s’irradia dallo sguardo di Mariangela Melato, in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto” (1974), quando si scopre innamorata di Giannini, marinaio comunista, per il quale “la fimmina è il trastullo del masculo lavoratore” e al quale si concede, con devozione – diventata di recente sinonimo di sottomissione -, mandando al diavolo tutte le sue posizioni progressiste da ricca industriale socialdemocratica. Improbabile che la gender equality non abbia attecchito sui teenager americani per colpa delle devianze indotte da questi due film, ma qualcosa dev’essere successo se, secondo un recente studio di Harvard, gli adolescenti, tanto maschi quanto femmine, continuano a preferire gli uomini ai posti di comando.

 

Qualche dettaglio in più (per dovere di cronaca, non per ferire Laura Boldrini): la metà delle ragazze e dei ragazzi intervistati, preferisce che le donne dirigano settori tradizionalmente femminili, come l’istruzione dei bambini, mentre l’altra metà si dichiara indifferente al genere; tre quinti delle ragazze bianche preferiscono che siano i loro compagni e non le loro compagne a guidare le associazioni studentesche; due maschi su cinque dichiarano di preferire leader politici uomini.

 

Il cambiamento di stato dei pregiudizi sessisti (scusate il termine), insomma, sembra non essere avvenuto, nonostante il discreto numero di anni dedicati all’educazione alla parità e alle virtù delle donne manager (l’ultima tutto fumo e niente arrosto è stata Diane Keaton in “Baby Boom” – era il 1987 - che si faceva spappolare il cuore e ammortizzare la sindrome di Burn Out da un mocciosetto capitatole in adozione forzata per una serie di sfortunati eventi: dopodiché sono fiorite solo le Samantha Jones, ape regina di “Sex and The City” che si concede lussi femminili come piangere tre secondi in ascensore per un colloquio andato male).

 

Ai dati sulle nuove generazioni di americani, che hanno lasciato a bocca aperta analisti e classe dirigente, corrisponde un andamento sociale dove le quote rosa annaspano: sebbene negli Stati Uniti la metà della forza lavoro sia costituita da donne, in testa alle grandi aziende c’è solo il 5 per cento di loro e i seggi rosa del Congresso coprono un risicato 19 per cento.

 

[**Video_box_2**]Secondo Marianne Cooper, sociologa dell’Istituto Clayman per gli studi di genere della Stanford University, il problema, in coppia di fatto con l’atavico pregiudizio secondo cui una donna che fa carriera o è un’inetta o ha il pisello, è “la nostra percezione di chi sia un leader e di quali qualità debba avere: autorità, decisionismo e aggressività, cioè caratteri che tendiamo ad attribuire agli uomini”.

 

Può darsi che questi millennial, a dispetto del nome avveniristico, siano incagliati in stereotipi retrivi (è stato rilevato anche che sono favorevoli al matrimonio e detestano il sesso occasionale) e che su di loro il lavoro da fare per seminare la gender equality, nonostante la costante esposizione al trasversalismo dei ruoli, sarà duro. Volendo osare, tuttavia, si potrebbe anche pensare che ai millennial e in particolare alle millennial, sia propria quella luce di Mariangela Melato e Maggie Gyllenhaal, ben felici di mollare ai maschi la leadership, semplicemente perché la leadership è una gran rottura di palle e il vero protagonista, almeno ogni tanto, è chi sa demandare.

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