Rock da canicola
Che caldo che fa. I suoni si dilatano nelle notti bollenti, le storie assumono contorni da sogno. Eccone alcune, souvenir dell’estate del ’15. Uno dei più sbalorditivi defining moment musicali della stagione va in scena nel contesto meno prevedibile. Barack Obama arriva a Charleston per le esequie delle vittime della strage nella chiesa metodista. Come sa fare in queste occasioni, il presidente sfodera il meglio di sé. Pronuncia un sentito elogio funebre, con un ricordo per l’amico reverendo Clementa Pinckney. Parole severe e romantiche, con quei toni da predicatore che contribuirono a lanciarlo, agli inizi della sua carriera. Poi, dopo mezz’ora di discorso, accade qualcosa di straordinario. Obama: “Il reverendo Pinckney disse: ‘Qui nel sud si dà grande attenzione alla nostra Storia, ma non sempre viene data la giusta attenzione alla storia degli altri’. Quello che è vero per il sud è vero per l’America. Pinckney sapeva che la giustizia è il prodotto della capacità di riconoscerci negli altri. Che la mia libertà dipende dalla tua libertà. Che la storia non può essere la spada che giustifica l’ingiustizia, o lo scudo contro il progresso, ma dev’essere il libro che ci permette di non ripetere gli errori del passato. E’ la strada che conduce a un mondo migliore. Sapeva che il cammino della grazia comporta una mente aperta, ma soprattutto cuore aperto. Ciò che una mia amica, la scrittrice Marilyn Robinson, chiama ‘il ripostiglio della cose buone che possiamo compiere l’uno per l’altro’. Il ripostiglio della bontà. Se noi siamo capaci di trovare quello stato di grazia, tutto è possibile. Se facciamo fluire quella grazia, tutto può cambiare. E’ la grazia meravigliosa, l’amazing grace”. A questo punto Obama si ferma. Certamente ciò che vediamo è studiato a tavolino, sicuramente è l’idea di un ghostwriter che dopo, per brindare alla trovata, si sarà fatto un bicchiere a Dupont Circle. Obama esita, tace, la folla nella chiesa coglie la solennità dell’istante, la schiera di prelati neri alle sue spalle si agita con lo spirito partecipativo delle chiese americane. D’un tratto, prima timidamente, poi con una forza inattesa, Obama comincia a cantare: “Grazia meravigliosa / quanto è dolce il suono che ha salvato un peccatore come me / Una volta ero perduto ma ora mi sono ritrovato / Ero cieco e ora vedo”. E’ una bomba. I reverendi scattano in piedi, hanno gli occhi umidi, si uniscono al canto, dicono amen, all right, alzano le mani in segno di approvazione. Tutta la chiesa comincia a cantare, il coro è potente, parte la banda, mentre Barack scandisce con voce stentorea i versetti. Il dolore del momento si sublima nel canto, in quell’organo, nelle grida di giubilo e adesione dei convenuti. Ecco cos’è il gospel! Ecco come una preghiera musicale che celebra visioni mistiche e passaggi di fede, si traduce in qualcosa di tangibile e condivisibile. Quando la strofa si chiude, Obama esclama tra gli applausi: “Clementa Pinckney ha trovato quella grazia”, e poi Cinthya Hurd ha trovato quella grazia, e via via snocciola i nomi delle vittime, private della vita, ma in uno stato di grazia. Al culmine della litania, il presidente conclude: “Con l’esempio della loro vita, ci hanno trasmesso questa grazia. Dimostriamoci degni di un dono così straordinario, per i giorni a venire. La grazia guidi il nostro cammino. Che Dio inondi di grazia gli Stati Uniti d’America”. Un momento di sofferenza, ribaltato in una cerimonia di empatia. Si dirà: la vita è altrove, è fuori da quella chiesa. Eppure il potere della comunicazione, attraverso le capacità di Barack Obama, compie miracoli, lenisce ferite, risolve terribili tensioni. Un canto, un canto di partecipazione come il gospel, assume senso nell’estasi collettiva, la forza di redimere e riunire. Musica nera, no? La chiamiamo in causa per i motivi più strani. Può essere il caso di farlo, ogni tanto, quando offre una mano per salvare una nazione dall’oscurità dei suoi errori.
Cronache della black music d’estate – parte seconda. Fox News, lo sappiamo, ci va giù pesante. Quando mette qualcuno nel mirino, tira al bersaglio grosso. Se muove i suoi guastatori su un obbiettivo come Kendrick Lamar, la sua musica e il suo messaggio, si delineano gli estremi di una guerra culturale. Tanto più in un momento così, con l’aria che tira Oltreoceano dopo un’annata tragica per le relazioni interrazziali, culminata con la strage di Charleston e il vuoto che ha aperto tra bianchi e neri. Qualche contributo, in alcuni casi valoroso, lo danno i musicisti e nella fattispecie l’ultimo album di Lamar, lo splendido “To Pimp a Butterfly”, che contiene parole importanti. Ma che non sono piaciute a Fox News, in particolare al veterano Geraldo Rivera che nel corso di “The Five” ha affermato che i testi di Lamar “hanno fatto ai giovani neri più danni di quanti ne abbia prodotti il razzismo”. All’origine dell’attacco la notevole performance di Lamar ai Bet Awards, all’inizio della quale l’artista si è presentato in piedi sul tetto di una macchina della polizia ricoperta di graffiti rappando: “Odiamo i poliziotti / che ci ammazzano per la strada facendo i gradassi”. Secondo Rivera, dire cose del genere è controproducente e dà “il messaggio sbagliato”, sebbene la canzone (“Alright”) cammini su altre strade, ovvero la denuncia della brutalità del razzismo diffuso tra le forze dell’ordine. Il baffuto conduttore ha continuato a blaterare dell”hip hop come “reale oppressione dei neri”, concludendo che sarebbe ora di capire “what’s going on”, come diceva il buon Marvin Gaye, e qui la citazione diventa umoristicamente casuale. Un paio di giorni più tardi Lamar ha rimesso Rivera al suo posto: “Come si può travisare una canzone che parla di speranza, leggendola come messaggio d’odio?”, ha detto. “Quel testo dice: ‘Ce la faremo a stare bene’. Di sicuro non dice ‘voglio ammazzare qualcuno’”. Lamar ha spiegato che lo show ai Bet era una drammatizzazione dei fatti di cronaca che hanno scosso la comunità nera negli ultimi tempi, a cominciare dagli ammazzamenti di Michael Brown e Freddie Gray. E ha concluso: “Non è l’hip hop il problema. Il problema è la realtà nella quale viviamo”.
Tutto ciò per una considerazione. Tra lo scarso entusiasmo dei candidati, che vedono la cosa come un terreno minato, la questione della razza è destinata a occupare un ruolo rilevante nell’imminente campagna elettorale americana. E anche l’hip hop, oggi principale fattore espressivo della comunità nera, parteciperà al dibattito. Presto l’hip hop si sentirà chiamato a rispondere, a difendere i suoi argomenti, diventando fattore politico di non trascurabile importanza. Un’opportunità senza precedenti, un lasciapassare per i saloni dove si svolge il confronto nazionale. Ai rapper verrà chiesto di argomentare, descrivere, testimoniare. Come costoro sapranno giocarsi questa chance, avrà un peso significativo – per la loro carriera, per chi li segue, per chi dubita di loro. Uno scenario inedito, nel quale il mainstream della comunicazione e i prodotti di una cultura che mantiene una radice spontanea (ma che ha conosciuto i compromessi del mercato) verranno a contatto. Un’occasione che potrà cambiare diverse cose. Nella quale ci piacerebbe che un ragazzo di strada con le idee chiare come Kendrick Lamar, si assumesse delle responsabilità e giocasse il ruolo di portavoce di una comunità. Una cosa che anni fa era considerata un’onore e una missione, ma che oggi corrisponde a un grande vuoto, dal momento che Barack Obama mai parlerà in quanto eminentemente afroamericano. Martin Luther King, Malcolm X: ricordate questi nomi…?
Dunque una perfetta serata dell’estate romana e Bob Dylan è tornato, a Caracalla, in quella location che non conosce rivali e che ha stordito perfino lui, perché i ruderi al tramonto erano rosa intenso e la ribalta, con quelle luci fisse prese di peso da un joint del proibizionismo, creavano un alone irreale. Al centro del quale s’è fatto avanti, marsina nera nella quale ormai casca dentro per come si sta rimpicciolendo, scortato dai musicisti in completo grigio (un grigio texano, mica un grigio bancario) tra i quali presto avrebbero spiccato il tuttofare Donnie Herron e il solista Charlie Sexton, che i più avvertiti ricordano a fine anni Ottanta, lanciato come l’ultimo bello della chitarra blues, in una carriera solista a cui ha rinunciato per mettersi al servizio di Sua Bobbinezza. Ci sono correzioni di rotta rispetto all’ultima volta: prima di tutto adesso Bob Dylan non imbraccia più la chitarra, mai. Fa il crooner, circondato da una corona di microfoni d’epoca. Spesso siede al pianoforte e qui succede una cosa straordinaria. La questione è: come suona il piano Dylan? Cosa ci suona sopra? Risposta non semplice. Perché Dylan non si accompagna, né tanto meno si lancia in assoli, fuori portata per la sua tecnica. Forte della innata musicalità, mentre canta va cercando sulla tastiera brandelli di linee melodiche alternative, abbellimenti, accenni di sviluppi, non diremmo dei controcanti, piuttosto degli “altri-canti”. Fantastico. Detto questo, bisogna soffermarsi su come stavolta Dylan ha amministrato la sua voce. Adesso è il turno del massimo arrochimento: niente gogheggi, niente declamazione, pochissima modulazione. Una specie di sublime rantolo, verbalmente incomprensibile, pilotato con un’intonazione che non conosce pari e con una gestione del ruolo che sfiora il virtuosismo proprio nell’autolimitarsi, nel ridursi a singulto gracchiante, agli antipodi dell’alta fedeltà e sciaguattando nella pozzanghera dei gufi notturni. Eccoci alla questione centrale dell’affare: cos’è venuto a farci sentire a questo giro, l’uomo del “tour che non finisce mai”? E’ stata la vera delizia della serata. Bob ha creato coi suoi musicisti il remake di una piccolissima orchestra di country-swing. L’ha riprodotta, perché ciò è già esistito nella parabola della musica americana della provincia profonda, nella quale i bisogni della cultura popolare si fondevano con le ideazioni degli artisti. A prescindere dalla scaletta – mai come in questa occasione irrilevante – il concerto è stato di un’impressionante compattezza stilistica. Dall’inizio alla fine, Dylan ci ha somministrato la riproduzione di un suono scomparso, complesso, a sua volta derivativo. La sua parte era quella del “cantante” – attenzione: non più del songwriter d’una volta. Per questo Dylan ha inseguito Frank Sinatra negli ultimi tempi: perché è sempre più attratto dall’idea dell’intrattenimento musicale come miscela d’ingredienti presi dove fa comodo trovarli – la steel guitar che diviene succedaneo delle sezioni d’archi, le chitarre che svolgono una funzione percussiva, il solista che imbelletta gli snodi di una canzone, il cantante che non ha più voglia di comporre, ma esegue. Un concerto che sembra una lezione. E Bob somiglia a un archeologo che, ultimate le ricerche, si limita a cicli di conferenze sulle sue scoperte. Senza parlare, rievocando. Non una parola, nemmeno per spiegare che quella che stava suonando, tra l’inconsapevolezza generale, fosse “Blowin in the Wind” – beffardamente sistemata nel bis, mascherata, dopo che in corso di concerto s’era perfino calato nei panni di Yves Montand, con le sue “Foglie Morte”. Dylan ha vinto ancora perché, senza sforzo, ha saputo abbindolarci, guardandoci con scherno dal palco, la manina poggiata sul fianco, aspettando il suo turno per cantare, come la migliore soubrette che la musica pop abbia mai venerato - da quando aveva vent’anni fino a ora, settantenne incartapecorito, sulle tracce di un bello americano di cui un giorno intravide una traccia e che da allora insegue come la chimera d’un continente sconosciuto.
Lungi da noi l’idea d’essere la Pizia di Jovanotti, ma c’è una distonia nelle sue ultime apparizioni con cui non riusciamo a venire a patti, dopo anni di apprezzamento incondizionato. Il disco, il tour, le interviste. L’impressione è che Lorenzo non abbia perduto le sue buone intenzioni e che (beato lui!) non abbia smarrito un’oncia della sua leggendaria energia. Però è come se la capacità di misura e di focalizzazione, le dimensioni del suo personaggio al centro della scena, non siano quel che dovrebbero essere e tendano piuttosto a estremizzarsi. Non crediamo che Lorenzo sia rimasto impigliato in una crisi di sicumera, perché non appartiene al suo carattere, che non ha mai difettato di autocritica. Potrebbe essere l’eccesso di esperienza a spingerlo verso direzioni che, inseguendo pose “eroiche”, hanno un gusto stereotipato, mancano della freschezza di cui Lorenzo era detentore e hanno la dimensione del “mestiere”. Le sue ultime canzoni sembrano aver perso quel gusto della nuance, quella leggerezza del tocco che ce l’ha fatto amare. Prendiamo “Gli Immortali” che adesso suona nelle radio. E’ una torch song: “In questi giorni impazziti di polvere e di gloria” ribadisce Jovanotti che “ora che siamo qui, noi siamo gli immortali”, capaci di reinventarsi bambini, quando s’approssima il momento di salutare la gioventù. Quell’eterno dilemma, contenuto nel nomignolo stesso che Lorenzo si scelse all’inizio, il desiderio di sfidare il tempo, di perpetuare il momento magico, di continuare a rappresentare uno stato mentale fatto di slanci e poesia, si rafforza ora nell’idea dell’immortalità, e rigenera il suo titolare sotto forma di profeta dell’autoaffermazione. Eppure noi continuiamo a crederlo più torturato e incerto di quanto poi sia pronto a mostrare pubblicamente. Lo sappiamo esperto, forse un po’ scettico su certe dinamiche relative al lavoro che fa. Ciò su cui affettuosamente lo vogliamo stuzzicare, è lo smarrimento del tocco, la raffinatezza di una rappresentazione di sé e del suo mondo con incluso il sano gusto dell’imperfezione, dell’autoironia, di quel tanto di superficialità che ce l’ha sempre fatto sembrare vero. Sono fasi. Di sicuro quella che traversa adesso è complessa, costellata di incertezze. Ma la corsa continua. Jovanotti resta, tra i nostri artisti, uno dei più rappresentativi e influenti. Vabbè: un immortale, come dice lui. Che poi riparte e ripensa. E noi qui a ritagliarlo sullo sfondo di un tempo che passa. A non perdonargli quasi niente. Su di lui abbiamo puntato un sacco di tempo fa, come su quello capace di descrivere. Ci vuole orecchio, fisico bestiale e autodisciplina. Sennò i supporter mugugnano, caro Jovanotti, soprattutto quelli della prima ora, mica convinti che la ballata giusta da cantare adesso parli d’immortalità, anziché di trasmissione. Del resto è sempre lui poi a sfoderare quella “Ragazza Magica” che dentro ha già il ravvedimento (“A forza di essere molto informato / so poco di tutto e dimentico”). Vai di là, Lorenzo, da quella parte, per favore. TI seguiremo fedeli.
Per una divergenza estiva col Jovanotti, la conferma invece di un artista che da Jovanotti ha mutuato un bel po’ del suo stile e ora lo fa maturare con grazia. Dargen D’Amico, milanese 35enne, titolare di un nuovo album “D’Io” con alti e bassi e un pezzo “Modigliani”, decisamente sopra media. “Abbiamo tutti i diritto / a una certa ora / di sentirci bene un’altra persona”, dice: è solo un rap lento e tenero, che però rivela quell’alchimia un po’ causale, improvvisata, ma dai sentimenti giusti, a cui Jovanotti ci ha abituato per anni. Di Dargen c’eravamo accorti in passato, perché è uno che ha delle intuizioni, una musicalità non comune, ma poi non riusciva mai a farcela, a dare una stabilità creativa alla sua produzione e alle sue possibilità di farsi ascoltare. Stavolta pare ci stia andando vicino: sarebbe buona cosa accordargli tutta la fiducia necessaria.
Infine storie canicolari, dalla Britannia. A cominciare dalla rinascita dei Libertines, band voluta dalla strana coppia Pete Doherty-Carl Barat, che la inventarono a fine anni Novanta, quand’erano sfaccendati studenti di teatro alla ricerca di una scorciatoia per la celebrità. Allorché trovarono i due giusti per completare l’organico (la ritmica John Hassall e Gary Powell) e un manager (Alan McGhee) pronto a seguirli nei deliri di debauchery, Doherty e Barat misero a ferro e fuoco la scena musicale londinese, costituendo, da soli, l’ondata successiva al Britpop. I Libertines avevano tutto: ascendenze punk, una coolness sterminata, splendide canzoncine con quel tono di romantica scapigliatura che fa girare la testa alle ragazze. Diventarono star istantanee e diedero fondo al loro trip nel divismo. Con esisti disastrosi: la propensione a trasgredire di Doherty si trasformò in una tossicomania bulimica e il sofisticato edonismo di Barat si scontrò con lo scandalismo che circondava il gruppo a ogni uscita. Certo, c’erano cose positive: i dischi dei Libertines venivano accolti dalla meravigliata approvazione della critica (com’è possibile che questo branco di depravati componga roba così buona?), nonché dall’incondizionato affetto del pubblico. Al centro continuava a esserci il rapporto maniacale che legava Pete a Carl: fratelli, amanti, partner inseparabili che fossero, i due prendevano forza dalle loro baruffe, sempre più insensate, tra oceani di droghe, il mondo del fighismo West End (ricordate il fidanzamento Doherty-Kate Moss?), furiosi dispetti e riconciliazioni. Presto la situazione divenne ingestibile: Doherty per vendicarsi dell’ennesimo rimprovero di Barat, che l’aveva cacciato da una session in quanto troppo “fatto”, si vendicò svaligiando l’appartamento dell’amico. Seguirono denuncia, condanna, prigione, rehab, una lunga separazione. Poi, poco alla volta, come due pianeti che non possono esistere uno a prescindere dall’altro, il riavvicinamento. Morale: i Libertines adesso sono di nuovo insieme. Doherty è invecchiato, imbolsito e ha ciuffi di capelli bianchi, ma mantiene l’aria da innocente maledetto. Barat continua a essere il suo perfetto complemento, preciso, guardingo, raffinato. Hanno scritto nuove canzoni, hanno un album in uscita (“Anthem For Doomed Youth”) e hanno fatto un video nel quartiere a luci rosse di Bangkok, sberleffo a chi crede nella redenzione dei perduti. Soprattutto sono stati protagonisti di un’apparizione a sorpresa al Glastonbury Festival, che ha azzerato tanti punti di vista sul senso, oggi, di una band di ragazzi malintenzionati, armati di chitarre e idee bislacche. Su quel palco c’era una forza, una bellezza e un sogno sul punto di infrangersi, a cui non si poteva non guardare con affetto. Per quanto poco poi durerà, prima che i due cuccioli, ormai troppo cresciuti, tornino ad azzuffarsi.
Chiudiamo con due righe di simpatia per un altro monello di 47 anni che vive nell’isola della Regina. Damon Albarn che, dopo averci restituito la più effimera versione dei Blur, ne ha fatta un’altra delle sue. E’ andato a suonare al festival Roskilde in Danimarca e si è trovato così bene, si divertiva talmente con quei musicisti, che ha protratto il concerto per 5 ore. Alla fine gli organizzatori, gli hanno prima chiesto di chiudere e, davanti ai suoi ridanciani dinieghi, hanno spedito una montagna umana della security ad asportarlo, con delicatezza, dalla ribalta. Questi l’ha preso letteralmente in braccio e lui è uscito mansueto, intonando il più appropriato dei motivetti possibili – quello dei Clash, che dice “Should I Stay or Shoud I Go”. Alla sua bravata estiva, i segni del nostro rispetto pop, e uno spicchio di sole tutto per lui.
Ecco l’elenco dei belli del 2015. Si aggiunge il carneade Ben Seretan, figlioccio di Sufjian e di Justin Vernon. E’ l’indipendente degli indipendenti, un provetto chitarrista che sussurra lunghi cantici, un po’ psichedelici e un po’ bucolici, sebbene li componga in un sottoscala di Brooklyn. Tenetelo d’occhio. Con gente come lui, la sei corde elettrica non perderà mai motivo di esistere.
Father John Misty “I Love You, Honeybear”
Sufjan Stevens “Carrie & Lowell”
Natalie Prass “NP”
Matthew E. White “Fresh Blood”
Kendrick Lamar “To Pimp A Butterfly”
Earl Sweatshirt “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside”.
Iosonouncane “DIE”
Blur “The Magic Whip”
Flavio Giurato “La scomparsa di Majorana”
Kamasi Washington “The Epic”
Charlie Parr “Stumpjumper”
Jamie Xx “In Colour”
Chassol “Big Sun“
Ben Seratan “BS”
Manciate di consigli non richiesti su canzoni da ascoltare, vedere e imparare a memoria. Direttamente dal desktop di Pistolini.