Quest'anno si porta molto il transgender, da Laverne Cox alla Casa Bianca
Fiaccola, drappeggio grigio perla, diadema a sette punte. Il travestimento da Statua della Libertà è perfetto, se non per qualche dettaglio: i sandali a tacco alto, lo spacco che rivela la coscia, un’abissale scollatura su due tette che l’originale pudicamente copriva, la scritta “Trans is beautiful” a sostituire – sul libro stretto nella mano sinistra – il Giorno dell’Indipendenza, 4 luglio 1776. Laverne Cox, la più famosa attrice transessuale d’America, è apparsa così sulla copertina di Entertainment Weekly, lo scorso giugno. Due mesi prima che l’amministrazione Obama annunciasse con gran clamore l’ingresso alla Casa Bianca della prima impiegata transessuale: Raffi Freedman-Gurspan.
La televisione era più avanti. Già da tre stagioni – la quarta è annunciata su Netflix per l’estate del 2016, da noi era su Infinity, piattaforma per lo streaming di Mediaset – Laverne Cox è Sophia, uno dei personaggi più popolari della serie carceraria “Orange is the New Black”. L’arancione è il colore della divisa, “the new black” nel gergo modaiolo indica la tendenza che sta per imporsi. Sophia si trova dietro le sbarre per aver falsificato carte di credito, doveva pagarsi il cambiamento di sesso. In cella aiuta le compagne a farsi belle, e con il senno di poi suggerisce a chi sta in ristrettezze di vendersi i capelli, che non è reato.
Laverne Cox è la prima attrice transgender mai stata nominata per un Emmy: la più intervistata, la più invitata alla Casa Bianca, la più richiesta per farsi un selfie, la più polemica nel dettare regole e sbaragliare la concorrenza. Ha fatto sapere a tutti che non darà dettagli sulle sue operazioni chirurgiche (e che anzi la domanda è mal posta, oltre che indiscreta: per essere transessuali basta sentirsi in contrasto con quel che sta scritto sui documenti). Ha gentilmente ma fermamente avuto da ridire sulla copertina di Vanity Fair che mostrava Caitlyn Brenner – una volta si chiamava Bruce, medaglia d’oro nel decathlon alle Olimpiadi del 1976 – in costume da bagno: “Dovrebbero lodarne il coraggio, non l’aspetto fisico”.
L’amministrazione Obama esulta, per una tessera in più aggiunta al mosaico americano. A noi viene un po’ di nostalgia per l’allegria di Agrado, la transessuale che in “Tutto su mia madre” di Pedro Almodovar calcola il costo degli zigomi, delle labbra, delle tette, del naso (“poi me l’hanno rotto con una bastonata, se l’avessi saputo avrei risparmiato un sacco di soldi”), del silicone che arrotonda i fianchi. Anche per Felicity Huffman, transessuale in “Transamerica” di Duncan Tucker: alla vigilia dell’operazione per cambiare sesso, Stanley – che da anni si fa chiamare Sabrina e porta certi orribili camicioni sui toni del rosa – scopre di avere un figlio, frutto dell’unica scopata da maschietto diciassettenne. Anche in questo caso l’allegria prevale sulle malinconie, e azzera i discorsi (lo spettatore capisce lo stesso: non serve il disegno, e il proclama politico).
[**Video_box_2**]Dieci anni fa la comunità transgender non era sotto i riflettori come oggi, e non protestò perché la parte era andata a un’attrice “cisgender”: così si chiama chi se ne sta tranquillo nel proprio sesso, senza tentar modifiche. Non era “cisgender” – rassegnatevi, bisogna impararlo – Larry Wachowsky, che insieme al fratello Andy aveva girato “Matrix”. Oggi si chiama Lana, porta i capelli color fucsia, assieme al fratello è showrunner della serie “Sense8”. Fantascienza, telepatia, un personaggio – ex Michael, ora Nomi, l’attore transgender si chiama Jamie Clayton – che ha avuto gli applausi di Laverne Cox.