Dilemma remake: chi se li merita e chi no
Capita ogni tanto di vedere film che nascono pronti per il remake: un’idea buona se non geniale, rovinata da uno svolgimento mediocre. Per colpa dello sceneggiatore (sempre il primo imputato) e del regista (complice). Al Festival di Locarno ce n’era uno intitolato “Guibord s’en va-t-en guerre”. Lo ha diretto Philippe Falardeau, canadese del Québec che avevamo scoperto nel 2011 con “Monsieur Lazhar”: insegnante suicida a scuola, schiere di psicologi che assistono gli allievi nell’elaborazione del lutto senza mai pronunciare la parola morte, e quando una bambina osa scriverla in un tema scatta la censura. Era un bel film con un bravo insegnante (ma del tipo che crede ai dettati difficili e non si siede tra i banchi). Guibord è invece un politico di terza categoria, così sfigato che ha l’ufficio nel retrobottega di un negozio di lingerie. Capita però che, per uno stallo in Parlamento, si trovi ad avere il voto decisivo su una questione delicata. Il problema è che non ha nessuna idea in materia, e nel suo collegio elettorale ci sono decine di gruppi litigiosi (tutti fanno blocchi stradali per protesta, anche un blocco stradale contro i blocchi stradali). Lo accompagna uno stagista haitiano, dal colonialissimo nome di Sovereign Pascal, che aveva mandato la sua candidatura a centinaia di uomini politici del Québec (solo Guibord gli ha risposto e l’affare si è fatto). Fanno da modello sono le “Lettere persiane” di Montesquieu: due colti viaggiatori che dalla Persia sbarcavano a Parigi nel Settecento, per raccontarne velenosamente gli usi e i costumi. Sovereign parla via Skype con la famiglia rimasta a Haiti, che poi si estende all’intero quartiere, e tutti danno suggerimenti: “perché non lo uccide? perché non fa un colpo di stato?”.
“Guibord s’en va-t-en guerre” merita un remake perché la scoppiettante idea di partenza perde vivacità man mano che il film procede. Perché della scorrettezza politica dell’insegnante Monsieur Lazhar (immigrato da lontano dopo che gli hanno sterminato la famiglia) non rimane traccia. Anzi di remake ne merita diversi: sarebbe divertente vedere come ogni nazione adatta la storia ai propri politici. L’Italia potrebbe fornire ampio materiale, a uno stagista forestiero. Del resto i nostri registi non sembrano avere grandi idee, è il momento di farsi avanti.
Non meritano invece di essere puniti con un remake molti dei film che compaiono nell’elenco apparso sul sito “Den of Geek!” (i “geek” son come i “nerd”, anche più maniaci, e “den” è la loro stanzetta). In cima alla lista – un centinaio di titoli – troviamo “Gli uccelli” di Alfred Hitchock. Se ne parla in verità da parecchio tempo, il produttore dovrebbe essere Michael Bay di “Armageddon” e “Transformers” – basta per nascondere la testa sotto il cuscino. Sicuramente ai maghi degli effetti speciali già prudono le mani, e gli ecologi già pregustano il commento sulla natura che si ribella. Dopo il “The End” scriveranno: “Nessuna bionda è stata maltrattata per girare questo film”.
Universalismo individualistico