Il populismo penale che non molla l'Italia, visto da un lettino in psicoanalisi
Non so se gli psicoanalisti applichino ancora il metodo junghiano delle parole-stimolo a cui il paziente deve associare la prima cosa che gli passa per la testa, ma ogni volta che sento la formula “populismo penale” – e grazie al cielo accade un po’ più spesso di prima – subito affiorano due ricordi, entrambi legati a Francesco Saverio Borrelli. Il primo è un piccolo ma spettacolare rovesciamento di frittata che il procuratore capo amava fare a metà degli anni Novanta in risposta alle accuse di giustizialismo. I nostri nemici non sanno neppure usare le parole, diceva pressappoco Borrelli, perché il justicialismo era l’ideologia di Perón, dunque è sinonimo di populismo, dunque il vero giustizialista (lui non faceva il nome) è Berlusconi. Il secondo ricordo, che ha tuttora il potere di guastarmi il sonno, è una frase sibillina pronunciata nei giorni trionfali di Mani Pulite: “Quando la gente ci applaude, applaude se stessa”. Quasi un calco della formula di Durkheim secondo cui la religione è la società che adora se stessa. Se ne poteva dedurre che Borrelli attribuiva al pool una funzione sacra o totemica, di canalizzazione di energie collettive: invece di Manitù, Manipù. I due ricordi avranno senz’altro un legame segreto nei meandri della mia nevrosi garantista, ma ne hanno anche uno manifesto, ed è questo: il populismo penale, l’uso improprio di strumenti giudiziari per ricercare il consenso, è tanto più infido in quanto è acefalo o policefalo. A differenza dei populismi radunati attorno a un capo, può assumere molti volti più o meno effimeri, incarnarsi secondo le occasioni in un pm giustiziere, in un politico gracchiante, in un giornale di secondini, in una vittima esemplare che chiede riparazione esemplare, o può anche mimetizzarsi nelle sembianze anonime di una moral majority. Insomma, è un mostro proteiforme politico-giudiziario – e poi dice che uno non dorme la notte.
“Populismo penale: una prospettiva italiana”, il libro di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli appena pubblicato da Cedam, aiuta a far ordine tra questi pensieri sparsi. E’ un libro che raccomando a chi ha i miei stessi incubi, anche se più che di Borrelli parla di immigrati irregolari, consumatori di droghe e altre categorie bersagliate da campagne tanto eclatanti quanto povere di risultati o più spesso ancora gravide di disastri. Anselmi, autore del primo capitolo che acciuffa il mostro dal corno della discussione politologica (gli altri due lo affrontano dal versante giuridico e da quello della politica criminale e carceraria), dà ahimè consistenza ai miei fantasmi. Il populismo penale, scrive, è prima di tutto una questione sociale, non legata a un evento specifico o a un personaggio; si tratta di “tendenze collettive che resistono all’ascesa e alla caduta di singoli movimenti politici ma che determinano delle profonde distorsioni anti-democratiche su una parte del sistema istituzionale e amministrativo, nella fattispecie di quello giuridico”.
[**Video_box_2**]Ed è qui che la metafora psicoanalitica torna utile. Perché in ogni “analisi interminabile” che si rispetti – e un quarto di secolo di ossessione penale fa rientrare il caso italiano pienamente nella categoria – si presenta prima o poi il momento in cui il povero nevrotico, dopo centinaia di ore di costosissimi conversari con un freudiano per lo più muto, si accorge che sì, ormai conosce a perfezione ogni dettaglio del suo male, ma ancora non ha idea di come guarirne. Da qui il senso di sconforto che mi coglie sempre più spesso nel leggere libri sulla giustizia pieni di saggezza impotente. Nel caso del populismo penale, poi, alzarsi dal lettino è particolarmente difficile. Perché un capo è per definizione decapitabile. Ma un populismo acefalo, dove lo si aggredisce? Non ho una risposta e neppure il libro ce l’ha, ma offre un buon punto di partenza per cercarne qualcuna. E a proposito, il capitolo conclusivo di Anastasia, “Materialità del simbolico”, dà l’ultima parola proprio a Durkheim, secondo cui la pena non serve a correggere i colpevoli ma a rinsaldare ritualmente il senso di rettitudine della società che li processa. O anche, come diceva il tizio dei miei incubi, “quando la gente ci applaude, applaude se stessa”.