Gli spiaggiati
Fascismo balneare
Sabaudia è stata costruita in un anno: ma le sue ville a volte in una notte. C’è la prima pagina del Messaggero di sabato 5 agosto 1933, “Oggi sarà posta la prima pietra”, occhiello “nell’Agro pontino redento dal fascismo”, e meglio di ogni project financing, la città sottratta a “un grandioso deserto paludoso e malarico” (Piovene) sarà pronta molto prima, in soli 265 giorni.
Ma quella era la bonifica, mentre Sabaudia oggi è soprattutto le sue ville, sulla duna, che sono ottanta, non una di più, cominciate dai nobili romani negli anni Cinquanta, e da allora status symbol supremo del metroquadro, della discesa a mare, del metrocubo pieds dans l’eau. Ogni villa ha una storia, oltre che un nome: “Là Volpi, qua Gatti, qui Lupi, laggiù Agnelli”, dice un conoscitore. La villa di Sabaudia è celebrata in letteratura, oltre che al cinema, e nell’annuncio immobiliare nella sezione “pregio” o “prestigio”.
Ci si arriva con la nostra Audi A3 gentile sponsor, che salta sulle buche della Pontina, la Salerno-Reggio Calabria degli sceneggiatori italiani: lasciandoci alle spalle Pomezia, come Alberto Sordi e Monica Vitti in “Amore Mio aiutami” (1969), film di quelli da sociologia con l’accetta del Sordi regista. E botte da urbi et orbi sulla duna tra un marito finto moderno e una moglie irreprensibile che scoprono il mistero antico dell’adulterio, con paresi psicosomatiche che all’epoca dovevano sembrare modernissime.
“Dovevano essere in realtà Mastroianni e Virna Lisi”, i protagonisti, segnala Tatti Sanguineti, in una villa costruenda in cui le finiture cambiano in continuazione per i repentini umori de “la mia signora”; c’è un caminetto che non piace, che va rifatto, e il geometra protesta, e in realtà la villa stessa è la protagonista. Simbolo di inamovibilità, Sordi vorrebbe invecchiare lì con la sua signora, nella sua villa panoramica, ma non ha fatto i conti con la vita che entra senza riguardi per la rendita catastale.
Ugo Gregoretti, regista di cinema e televisione, nel film faceva Michele, dentista e miglior amico di Sordi. “Il mio ruolo era quello di far capire ad Alberto le gioie delle corna, io ero cornutissimo nel film”, dice al Foglio. Gregoretti nel film relativizzava. Di fronte alle intemperanze della Vitti, spiegava: “sai, per me è diverso, io ho sposato una mignotta; mignotta lei, mignotta la madre, mignotta la sorella. Prima o poi dovevo abituarmi; ma il caso tuo è diverso”.
Mentre la coppia Sordi-Vitti scoppia e si ricompone, la casa continua a crescere, con le sue finiture signorili. Ma poi Vitti alzandosi la gonna sul lungomare provoca clacsonate e lo sbrocco omicida di Sordi, che smette i suoi panni moderni e torna maschio alfa (il cambiamento è sottolineato da un incupirsi della colonna sonora di Piero Piccioni); e inizia a corcarla sulla duna, in una sequenza memorabile di “dillo ancora che lo ami”, e “sì, che lo amo”. Fino a fratture multiple e scomposte e pronto soccorso.
“Sulla duna, a picchiare era Sordi vero, mentre la Vitti aveva utilizzato una controfigura”, dice ancora Gregoretti; era poi una Fiorella Mannoia giovanissima, che da ragazza faceva la stuntgirl, e da quell’esperienza forse ha tratto insegnamenti femministi per la sua discografia futura. In fondo Vitti nel film era davvero “dolcemente complicata”, prima di finire per le percosse al nosocomio.
Che nel film non c’è, eppure Sabaudia è dotata di uno dei più begli ospedali d’Italia: tondo, coloniale, pare d’essere a Miami; opera dell’architetto Angelo Vicario (1934), che costruì anche alcuni pregevoli villini per medici, intorno. Oggi, solo gatti assolati e scuolabus scrostati, e un pronto soccorso funzionante. Ma dopo le medicazioni, per la Vitti, ecco un lunch sereno, in villa, nel grande salone con angolo cottura che si può vedere negli annunci di vendita online. Ma la casa ha una storia sua non solo vittiana. Fu infatti regalata da Gianni Agnelli ad Anita Ekberg, fu venduta poi a dei magnati americani degli ascensori, e oggi viene affittata, ma si cerca un compratore.
Più in là verso il Circeo, si cercano compratori liquidi anche per villa Volpi. In vendita da anni, con prezzo sceso da 30 a 20, milioni di euro, per questo abuso d’epoca per la famiglia già fascista e inventrice del Festival del cinema di Venezia. La contessa Nathalie, socialite romana, nata el Kanoui a Orano, Algeria, come Yves Saint Laurent, telegrafava leggiadra al’archistar italiana Tomaso Buzzi, “Faites-moi une petite folie”, una piccola follia sul litorale, e in epoche pre-Italia Nostra comandava la costruzione di “projet templo greco palladien avec colonnes”, e pronao da Via col Vento, dove “dalle finestre estive aperte si potevano sentire quelle sue nenie sudafricane in compagnia di qualche Rothschild, dopo che il maître aveva battuto il gong e suonato una tuba in spiaggia per annunciare la colazione” (Alberto Arbasino, “Ritratti italiani”, Adelphi). Una Malcontenta balneare, per celebrare le origini venete, se non proprio antiche, della stirpe, e un passaggio sotterraneo che porta al lago di Paola, dietro, quasi come quello degli Agnelli a Forte dei Marmi.
La morte a Pomezia? Vestivamo all’amatriciana? Però oggi il conte Giovanni sta poco bene, e a Londra, e nessuno ce la fa vedere, la villa, si interpellano fondamentali agenzie e un principe romano che ha tutte le chiavi come nella Grande bellezza, ma niente. Davanti, un antico motoscafo Volpi, il “Tramontana”, sta spiaggiato a prendere la ruggine.
A Venezia, intanto, nei primi Festival del Cinema by Volpi, aveva vinto “Scipione l’africano”; “grande film storico attuato con mezzi esclusivamente italiani” secondo nomination di regime (aveva preso poi la coppa Mussolini). “L’hanno girato qui, lo sapevi?”, dice affabile e abbronzatissimo Gianfranco Fini, spiaggiato anche lui, molto rilassato, sulla duna. “I film africani li giravano qui, era comodo, a un’ora da Cinecittà; poi è rimasto famoso perché è quello in cui hanno lasciato gli orologi ai polsi delle comparse”, dice accendendosi una Merit. Fini un tempo andava all’Argentario, ma ora sta qui, in villa (“più comodo, con le bambine, apri il cancello e sei in acqua”), e conosce i luoghi, essendo stato tra l’altro assessore a San Felice in altri tempi. Certo “tra le città di nuova edificazione Sabaudia è una delle migliori, la meglio conservata. Si costruiva in un anno, non c’erano vincoli, nei regimi non democratici era così”. Nostalgia? “Ma per carità”.
E però Mussolini doveva essere davvero il committente di sogno per qualunque architetto o geometra anche dei massimi livelli: come si vide qualche anno fa a una mostra fondamentale al Maxxi, ecco Le Corbusier fare molta anticamera a Palazzo Venezia presentando progetti e varianti per new town; ingarellato, manda un piano per costruire città chiavi in mano in 50 giorni, contro i 265 di Sabaudia, coi prefabbricati. Invia dediche e autografi, e però non viene mai ricevuto dal Duce che preferisce i suoi architetti, dicendo poi la sua in ultimo, come un Berlusconi su Milano 2 e 3.
Era però – è chiaro – un fascismo laterizio molto azzeccato, e light, con quella riuscita felice di quando l’architetto e il committente si capiscono al volo. Anche Pasolini, in una famosa intervista girata su questa duna, rifletteva: “Quanto abbiamo riso noi intellettuali sulle città del regime, e su Sabaudia. Ma adesso guardandola ci accorgiamo che la sua architettura non ha niente di ridicolo, questa architettura diciamo littoria nel tempo ha assunto un carattere metafisico e realistico”. E ancora: “Una città ridicola fascista che all’improvviso ci sembra così incantevole”. Insomma un fascismo balneare, con architetti che come moderni chef o coiffeur prendono i “temi” pesanti classici e però tolgono un po’ di volumi o tagliano i tempi di cottura (non è piazza Vittoria a Brescia, insomma); ecco dunque strutturine leggiadre, di un razionalismo un po’ floridiano. Ecco le Poste di Angiolo Mazzoni, con rivestimento in mosaico azzurro-Savoia, e le finestre in marmo rosso di Siena, e nella luce della controra si è subito in un Hopper struggente pontino.
Anche Pasolini investiva poi nel mattone, naturalmente. “Comprammo nel 1973 una casa lunga e stretta, insieme a lui e Moravia”, dice al Foglio Dacia Maraini. Dunque morendo tragicamente solo due anni dopo, “se la godette poco”. “La casa era già divisa in due, la prendemmo che c’erano solo le fondamenta e la finimmo di costruire. Prima andavamo in affitto”. Le giornate? “La mattina ci si alzava presto, si scriveva tutti, verso mezzogiorno si andava in spiaggia. Venivano Bertolucci e Enzo Siciliano. Poi il pomeriggio si scriveva ancora, e la sera una passeggiata verso le sei-sette, a prendere il gelato a Sabaudia”. A Sabaudia anche “una cartolibreria dove si andava a prendere i giornali e la crema per il sole e i quaderni per scrivere, e vendeva tutti i nostri libri”.
Moravia naturalmente “pescava le telline”, come poi Gregoretti e Sordi in “Amore mio aiutami”. A volte, “si andava a fare la spesa a La Cona” (sobborgo vagamente losangelino-bombardato con pasticcerie e enoteche che vendono Franciacorta di fascia alta “bruttissima, piena di gente con gli zoccoli e le radio accese, costruita malamente”, sempre Maraini). Qui, sulla high street, c’è anche la pescheria dove si serve una delle ultime edificatrici di ville, la ex capa designer di Gucci Frida Giannini. Spesso in tenuta da cavallerizza, poiché ha passione equestre; già fioriscono i calembour su “i cavalli di Frida”, per un documentario di James Franco (“The director”) in cui la stilista cavalca a briglia sciolta sulla duna sabauda. Giannini si è sposata proprio a Sabaudia a giugno, con l’ex ad del gruppo fiorentino. Entrambi sono fuoriusciti dalla griffe, ma qui non interessa a nessuno, tutti piuttosto si chiedono come verrà la villa, enorme, candida, ristrutturanda a metà del Lungomare – l’avrà fatta qualche designer almeno svizzero-coreano oppure il papà architetto comunista della Garbatella, che usava stare qui in camper fino all’anno scorso?
[**Video_box_2**]Davvero, il gossip immobiliare è il più interessante anche da Saporetti, avamposto a quadri bianchi e blu del frittino arioso, sotto torre Paola (che è dei marchesi del Pennino, con una piscina, inutilizzata da anni, il sogno di ogni immobiliarista). Lì, fanciulle in fiore da “Voglia matta” (con Catherine Spaak, girato qui) e tocchi di realtà oggi poco metafisica (Riccardo Mancini, ex ad di Eur Spa, già arrestato per le mafie capitali, poi rilasciato, mangia dietro di noi e dice a degli ospiti: “er casino de sti giorni? Dopo ‘aa bufera ariva er sereno”; “I giornali scrivono? E’ ’er mestiere loro”).
Che paura. Meglio concentrarsi sui racconti di Giulio Saporetti, fondatore, anni novantacinque, che racconta di Vitti e Sordi, e di quando Soraya imperatrice triste fuggiva nella duna inseguita dai paparazzi. Il figlio Gino dice “altro che Moravia e Pasolini, io mi ricordo la Bolkan a quel tavolo là che si baciava con una, avevo sette anni. O Maria Grazia Buccella, che bella che era”. E poi, più recentemente, Michelle Pfeiffer e Susan Sarandon (fidanzata all’epoca col regista del “Ragazzo del Pony express”, Franco Amurri) mangiavano qui delle arselle a filiera corta.
Oggi, sarebbe il sogno dei paparazzi: ma i paparazzi Piero e Max sotto il loro tendone si accontentano di Francesco Totti (“sempre molto gentile”), di Fini e di Corrado Passera, vicini di villa. Del Viperetta. A proposito, Passera in che villa sta? Quanti metri quadri? Da chi ha affittato? Alla fine, torna ossessivo il mattone. Ed ecco altri romanzi immobiliari: quello di una villa per produttori di fiction rampanti, costruita in legno in un hangar a Terracina, poi sbullonata e trasportata qui in elicottero, in un’alba livida alla Apocalypse Now, e rimontata per aggirare i vincoli. Sarà vero? Giurano di sì, ma che importa. Del resto, afferma Gregoretti, “i cinematografari, soprattutto i produttori, investono sempre in case. Investono in tutto, tranne che nei film”. A Sabaudia, poi, non si vendono sogni, ma solide realtà.