Oceano padano
Gran Maestro del Tedio
Il sole senza colore e il cielo invisibile incombono su di noi senza pietà, ci crocifiggono alle ottomane in ombra nei tinelli ricoperte da fiorati teli protettivi, incrudeliscono sulle nostre sieste inquiete richiamandoci alle ferree abitudini che ci sono state date in sorte (o in un più prosaico comodato d’uso), al nostro inconfessato bisogno di stare, di farci un tuttuno con la melga svettante, di giacere sul piano infinito di questa fertilità verde.
Verde e perfetta e ordinata, rispecchia il nostro rigido modo di vivere sull’Oceano Padano, e qui a Nosadello. Non solo le donne nelle faccende di casa, ma pure gli uomini nei gabbiotti per gli attrezzi meticolosamente disposti per funzione e dimensioni, affrontano omeopaticamente la ripetitività delle infernali giornate estive replicandola senza posa nei gesti quotidiani. Perché tutto questo ordine, questa smania di sistemare le cose come se volessimo nascondere d’averle toccate, usate, consumate, o soltanto spostate? Quasi bramassimo occultare il nostro passaggio, celare la nostra presenza, farci dimenticare, sparire – com’è nell’indole di noi oceanico-padani, fare e non curarci d’altro, agire nel silenzio, paghi di noi stessi ma non tronfi, sempre all’opera ma indifferenti all’eventualità che qualcuno lo dica, lo riconosca, se ne avveda in un qualunque modo. Tanto noi qua ci spacchiamo lo stesso di fatica. E di noia.
E io non sono da meno. Vedo l’agosto che stenta a morire blindato in camera mia, e ripenso a quando ero giovane e sentimentale e leggevo “Il buon Dio di Manhattan” di Ingeborg Bachmann e mi commuovevo per i due che si amavano a dispetto di tutto chiusi in una stanza d’albergo. Solo che io non sono più giovane, ho bandito dal mio repertorio ogni sentimento lagrimevole e sto qui, ugualmente rinchiuso ma da solo, come un pistola, come un por malan. Solo, se si eccettuano mia madre, che mi invita ad accompagnarla al supermercato per la spesa del giovedì delle 15 (mai un giorno prima, mai un’ora dopo), e mio padre, che mi esorta a non meglio specificati lavori. Sto per cedere a questi allettanti inviti, alla movida diurna, all’azione, ma desisto, memore dell’appunto che Petrarca stese in margine a un codice del Canzoniere: Volui incipere, sed vocor ad coenam, avrei voluto cominciare (a lavorarci), ma sono chiamato a cena. Ecco, anch’io avrei voluto fare qualcosa, sed vocor ad nojam. Sono chiamato alla noia. Alla mia vocazione.
Mi ci applico così tanto, e bene, che il giorno sgocciola via inavverito ed è già sera, quando smarrito nell’ascolto dell’infinito frinire delle cicale fuori dalla finestra – di là dal balcone di cemento, oltre la siepe, oltre il fosso che recinge le nostre oneste e condivise solitudini – mi sento trasumanare, e io lievito, ascendo, trasfiguro, e il Gran Maestro del Tedio apparendomi in una nuvola d’afa mi fa cintura nera decimo dan di rottura di balle.
[**Video_box_2**]Poi sul tardi mi telefona mia moglie, non so nemmeno da dove, non lo ricordo più, di certo da un luogo privo delle feroci non-tinte nosadellesi – non importa quale sia, là fuori per me d’estate tutto è uguale, niente rogge, niente stalle, nessun senso ordinato e civile. So solo che lei non è qui, nella meraviglia del nulla. Forse mentre prende il fresco guardando le montagne in val d’Ossola, o forse profumando di crema doposole mentre mangia una granita alle mandorle sul lunghissimo lungomare di Reggio di Calabria, lei mi chiede con preoccupazione deliziosamente svagata: “Ti stai annoiando, vero?”, e “Sì”, dico, “sì”, voglio ripeterle, “sì, non sai quanto”, e si distrae e non si accorge che la voce ha cambiato timbro e intonazione, “non sai quanto…”, insisto io, gli occhi fissi sul pioppo che lei ignora, come ignora il mio stato, e non lo contempla, e non sa che dietro al cellulare mi si sta aprendo un incomprensibile sorriso di ebete beatitudine.
Non lo sai quanto mi annoio, divinamente.