Oceano Padano
In bici, ma poco
Nosadello – summa perfetta di questo Oceano Padano che vuole solo che restiamo, che agiamo da fermi, che aborriamo viaggi, partenze e spostamenti innecessari – in estate esige immobilismo e noia. Ma non posso sottrarmi a una delle nostre attività preferite, e cioè il giro in bicicletta nei soliti pochissimi chilometri quadrati di recinto entro cui ci rinchiudiamo senza scampo. Fare le stesse cose, negli stessi posti, alle stesse ore, magari: questo è lecito. A intervalli regolari, dunque, durante le vacanze al paese è d’obbligo la gita in bici, con poche varianti: o si fa l’eterno, breve tratto tra Nosadello e Gradella, avanti e indietro, avanti e indietro; o il più articolato giro Nosadello, Gradella, Pandino, Agnadello, Torlino, Cascine Capri, Cascine Gandini, Pandino, Nosadello. Oggi tocca a questo.
Nella rigogliosissima campagna attorno ad Agnadello, lungo questo segmento emblematico delle più pure navigazioni oceanico-padane, tra rogge e fontanili e stradine d’asfalto vecchio e cavedagne e cascine e ululati di cani alla catena e trattori e ranghinatori e melga e campi e ancora campi e indescrivibili immanenze di verde tra una svolta e uno slargo di cielo azzurissimo, ci si imbatte a una certo punto nella cappella votiva eretta a ricordo della celebre battaglia di Agnadello, che nel 1509 vide i Veneziani sconfitti dai Francesi. Questa rustica cappella, attorno a cui nella stagione dell’afa si radunano gruppi di vecchi che giocano a carte o sperano in un po’ di fresco, è dedicata alla Madonna della Vittoria, anche se il sacro tempietto in realtà è più comunemente noto come la Madona di Strass, la Madonna degli Stracci. Perché c’era e c’è tuttora ben vivo l’uso di appendervi, appunto, degli stracci, dei grezzi pezzi di tessuto – non saprei spiegare perché, ma sento che si può vivere bene anche nell’ignoranza delle ragioni. A me sembra solo un monumento perfetto per questi luoghi schivi e dimessi, restii a farsi conoscere e amare.
Rimanga pure Michelangelo Pistoletto negli aridi musei con la sua “Venere degli Stracci”, denuncia “sociale” del consumismo (così leggo su Google, e mi basta), che certo non raggiunge, non tocca i nostri uomini, le nostre pie donne, che affidano all’umiltà del gesto (appendere alla Croce logore pezzuole di stoffa) ben altro senso, condiviso benché incognito, non meno significante e aderente a questa non retorica semplicità che ci domina, mentre passando lì davanti a torso nudo o fermandoci alla fontanella per bere ci rimettiamo la canotta bucata, ci segniamo di fretta, abbassiamo automaticamente la voce. Poi il melgone alto alto laggiù sulla strada ci richiama alla povera impresa, sbroffiamo via l’acqua dalla faccia, tiriamo una sputacchiata ed eccoci pronti a ripartire col culo sudato sulla sella.
Come il Consonni
La bellezza dei posti visti mille volte, la solitudine, il sole a piombo in testa mi stordiscono a tal punto che mi verrebbe da imitare il Pisati, un vecchio amico e compagno di squadra di mio padre, il quale durante una corsa ciclistica agostana, perse le speranze di un anche misero piazzamento, puntò all’invitante roggia colma d’acqua e ci si tuffò dentro direttamente con la bici: e lì rimase, ostinatamente dissuadendo i soccorritori, beato.
[**Video_box_2**]Ma mentre giungo nell’unico tratto in pendenza del circuito, che è in leggerissima discesa, e in curva, mi ridesto, mi elettrizzo, una scarica di almeno due volt mi attraversa, e io in quel momento mi sento come il Pessina del “Dio di Roserio” di Giovanni Testori, anzi no, come il Consonni, il gregario spintonato a tradimento; epperò senza l’esito drammatico, senza lo schianto, il dolore, la ferita. Senza i danni permanenti: soltanto mi resta appiccicata addosso – e nessuna velocità raggiunta nel tracciato, nessuna ebrezza del rischio sarebbero capaci di liberarmene – una diversa e allucinata declinazione di questa inscalfibile, oceanica rottura di balle.