Estate sull'Oceano Padano
Non capirò mai quelli che in ufficio si appendono foto di spiagge lontane
I tenui rumori serali di una gioia trattenuta e perplessa – nonché di mascelle affaticate dallo sgagnare quintali di salamelle – provenienti dall’oratorio in festa per la sagra di settembre, mi dicono che anche a Nosadello l’estate è finita. Ma prima che lo sconforto mi riporti a Pavia, medito su ciò che qui miracolosamente non avviene.
Penso allora che noi qui al paese siamo mitridatizzati alla noia. Assunta per anni, senza deflessioni, ogni giorno ne siamo sempre più immuni. Indifferenti alle subdole imposizioni della modernità sovreccitata, a noi, qui sul nostro negletto atollo dell’Oceano Padano, non ci spaventa più niente, non l’assenza di luoghi deputati allo svago, alla cultura, al preteso incivilimento di massa, non le ore infinite dell’estate canicolare, non le sedie vuote nei cortili, e nemmeno i peggiori tra i mostri che il calendario ci somministra: le domeniche pomeriggio.
Il tempo scorre ripetitivo e innocuo sulle nostre mortalità inconsapevoli, sulle ringhiere zincate, sul letame ammucchiato nei campi, sul trinciato per le bestie. Guardiamo senza moti del cuore i granelli di polvere cadere, uno a uno, nella clessidra: una clessidra le cui due parti sono capienti ciascuna quanto uno di quei monumentali silos che torreggiano vicino alle stalle. Tale è la misura della nostra noia, il serbatoio metaforico che ci tocca, e la cui esegesi ammannisco ad attoniti compaesani (“Cusa l’è ch’el dis, quel lì?”) con effati così lirici e fuori luogo, che mi pare d’essere ormai, ed è titolo che usurpo unicamente perché senza pretendenti, il ridicolo Omero della Bassa lombarda. Solo che lui, ammesso che sia esistito, era cieco. Io invece, oltre a esistere (si fa per dire) sulla piatta tavola dell’Oceano Padano, ed esistendo (si fa per dire) anzi sul suo più umile e monotono segnacolo, Nosadello, vedo benissimo, col privilegio di chi non ha nient’altro da fare se non contare i trifogli sulle rive della roggia Gradella, io vedo tutta questa immensa, sovrumana, difficilmente versificabile noia. E così difficile da definire altrimenti – per quanto a volersi cimentare in esercizi di retorica una plausibile approssimazione, buona solo, s’intende, per usi letterari e non domestici o parlativi, si potrebbe tentare azzardando un “monumentale rottura di balle”.
Esco allora per fingere un’ultima volta di volerla combattere, o eludere, di cercare ragioni per cui non amarla. Due sciure sussurrano fuori casa, una tira giù ragnatele dalla cassetta della posta, l’altra dice che adesso va, ci ha da fare, mentre i grembiuli stingono nel sole delle tre. La roggia è quasi in secca, il bar deserto, la chiesa sprangata, la melga ormai tagliata. Non trovo nulla che mi liberi da questa noia, di cui sento già la nostalgia, e non esiste per me, ora, consolazione maggiore.
Ma non vi stanca invece, a voialtri, tutto quel divertimento cui vi sottoponete? Non vi spossa anima e corpo il dover stare alla grande, passare serate nei posti giusti, rincorrere fino allo sfinimento gli estremi barbagli dell’ingannevolissima estate da godere? Né si sentano esenti dalla colpa i vacanzieri da località pseudoincontaminate, i meditativi da montagna, gli alernativi da collina, i bolsi da terme, agriturismi e percorsi enogastronomici. Spostarsi è il male che ci affligge, la perversione cui far fronte con le armi arrese dello stare. Nulla salus extra Nosadellum.
[**Video_box_2**]Eppure anche qui è arrivato settembre, anche per me è tempo di migrare tristemente altrove. Mentre tiro fuori la prima maglia della salute (“Sa sa mai, magari vé sü ’l freschin”, si sa mai, magari vien su il fresco), penso all’agosto prossimo, e il pensiero è così intenso che finisco per annoiarmi preventivamente, e mi corre lungo la schiena un inconfessabile brivido di piacere, misto alla consapevolezza che dovrò pazientare nella dissimulazione della verità in mezzo a gente che in ufficio ha appeso orribili poster di terre oscenamente distanti, di città foreste, di atolli caraibici, o foto di morosi in costume e arrossamenti cutanei su affollate battigie – silenziosamente lasciandomi scivolare addosso stagioni, nebbie, cassoeule, geli, e i primi soli a darci i tiepidi annunci della gioia afosa e ventura.
Conteremo diversamente i giorni, io e quelli delle foto al mare. Ma ciò che più importa, e di cui mi avvedo fin da ora con dolorosa chiarezza, è che so che mi mancherà, lei, l’estate del nostro tedioso tormento, l’estatico sfinimento per noia sotto il portichetto di casa mia, a Nosadello, Oceano Padano.