Una scena di "Viaggi di nozze" di Carlo Verdone

La nuova donna è maschiofobica. Il post femminismo genera mostri

Simonetta Sciandivasci
Una nuova arma nelle mani delle femmine dopo la misoginia. “Provare irrazionale timore e disprezzo per gli uomini”. E’ la definizione che l’urbandictionary anglofono, impeccabile anagrafe fenomenica del presente, reca di manphobic.

Roma. “Provare irrazionale timore e disprezzo per gli uomini”. E’ la definizione che l’urbandictionary anglofono, impeccabile anagrafe fenomenica del presente, reca di manphobic: per l’Enciclopedia Britannica ci sarà da attendere, per il Devoto Oli, probabilmente, nemmeno da sperare. Eppure, nello scontro di civiltà maschi contro femmine – quello che, a leggere in filigrana “Soumission” di Hoellebecq, ma pure facendo semplicemente sexting, zapping, stalking (inconsapevole, sia chiaro) si capisce essere lo Zeitgeist del nostro occidente – la maschiofobia mantiene statuto e legittimità e, molto più del suo contrario, ha un impiego cautelare.

 

In questi giorni si sta riservando una calorosa accoglienza alla nuova app per incontri Bumble, definita femminista – più o meno dalle stesse campane che hanno sempre suonato contro gli incontri virtuali tout-court, giudicandoli reificanti e mortificanti per le donne –  perché dà vita breve al vituperio maschile e all’innocente, sexissimo loft talking (quel “sentire porcate durante l’atto” che Carlo Verdone, in “Viaggi di Nozze”, proponeva a Fosca, in una suite del San Danieli, Venezia centro, ricevendo un brusco “assolutamente no!”), da cui nessun’altra app o chat o sito per incontri tutela i propri utenti – essendo quasi tutti, in modo unisex, in cerca proprio di porcate, prima da dire e poi da fare. Su Bumble, sono le donne a scegliere: il maschio che viene selezionato (già in questo c’è il riscatto di un paio di generazioni di donne che si mettevano il body a fiori perché i tempi fossero migliori), se risponde al contatto, non può subito comunicare con la ragazza, la quale ha 24 ore per confermarlo o cestinarlo. In questa via crucis, il comportamento degli utenti viene monitorato e parametrato da un algoritmo, che ne stabilisce il grado di gentilezza, “interattività sociale positiva”, affidabilità e pure galanteria – il tutto, senza nemmeno che le chat vengano visionate.

 

Meccanica a parte, la presenza dell’algoritmo non squaderna nessun principio femminista, ma di certo ci aiuta nel comprendere l’animus tendenziale della maschiofobia: l’uomo è ontologicamente cacciatore, predatore, prevaricatore, zozzo, affabulatore e tutelarsi da tutto questo si può, si deve, eccovi un algoritmo per farlo, perché le donne sono tutte dolcemente complicate e diverse, mentre gli uomini sono identici, per conoscerli è più che sufficiente procedere per sommi capi, algoritmi e sondaggi. A differenza della misoginia, che è il riflesso condizionato attribuito al gene maschile e il nome di un’accusa con cui si intende risarcire secoli di dominazione fallocratica in cui l’odio verso le donne non era sanzionabile perché nemmeno nominabile, entrambi fondati su un assunto senza base scientifica – la donna è inferiore –, la maschiofobia ricorre alla scienza.

 

[**Video_box_2**]La settimana scorsa, il blog La 27esima ora del Corriere della Sera dava notizia di una ricerca americana condotta da Bianca Manago e Cate Taylor, dell’Indiana University, che dimostrerebbe, dati sulle fluttuazioni di cortisolo (ormone dello stress) alla mano, come le donne che lavorano in ambienti dove la presenza maschile supera l’85 per cento siano significativamente più stressate rispetto a quelle che lavorano in ambienti più rispettosi delle quote rosa. Non si tratta della prima ricerca condotta per dimostrare questa tesi, ma la sua novità sta nel fatto che si basa su parametri fisiologici e non su rilevazioni psicologiche. Questo significa che la maschiofobia non sarà mai l’argomento che gli uomini potranno impugnare contro le donne che impugnano contro di loro quello della misoginia, ma sarà – anzi, è già – la seconda arma in quelle mani femminili che perpetrano, sempre meno a ragione, lo stereotipo dell’uomo selvatico stupratore per vocazione. E’ in atto una “campagna di denigrazione tesa a distruggere la credibilità di un intero gruppo sociale”, ha detto Claudio Risè, psicoterapeuta e autore di “Il maschio selvatico 2” (Edizioni San Paolo), uscito qualche mese fa come riedizione di un testo pubblicato 23 anni fa, che già mostrava gli effetti catastrofici della continua colpevolizzazione degli uomini, spesso pregiudiziale, proprio come quella per la quale le donne hanno vissuto ai margini della storia per quasi tutta la storia.

 

Ogni donna ama un fascista, scriveva Sylvia Plath, del tutto ignara che, un giorno, le “fasciste” sarebbero diventate le donne, facendo del vittimismo uno spaventoso, stolido totalitarismo.

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