Tristezza (per favore va' via) e i suoi tristofori. Ovvero come farsi del male guardando un cartoon di successo
Succede che Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa e romanziere di successo (vende più copie lui del suo giornale), va al cinema a vedere un cartoon che sarà senz’altro un gioiello, “Inside Out”, e poi scrive in prima pagina un “Elogio della tristezza”. Svolgimento: c’era una volta un’esserina “occhialuta, goffa e blu” chiamata Tristezza, una mamma cattiva e un’altra esserina chiamata Gioia la tenevano lontana dallo spettro emotivo della bambina protagonista, temendo, guarda un po’, che non le giovasse; com’è come non è, alla fine l’esserina chiamata Tristezza torna dall’esilio e trova un suo posto pedagogicamente essenziale nel cuore della piccola. Morale: alla faccia degli “imbonitori della politica che ci vorrebbero pervasi da un entusiasmo ilare e beota”. “Occorreva un cartone animato per ricordarci che un uomo incapace di accogliere la tristezza è un automa… la tristezza sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani”.
Non so se Gramellini abbia riscoperto Schopenhauer o se diventerà buddista dopo aver visto questo cartone per bambini. Glielo auguro. Il punto è che la Tristezza rende tristi, ci si arriva intuitivamente. Sta bene avvicinare i pre-adolescenti alla durezza della vita vera, ma tesserci su una pastorale per bambini adulti, questo no. Gramellini saprà, ne sono certo, che la personificazione degli stati d’animo è una pratica antica e nobile, in occidente come in oriente. Gli stoici mirano a uno stato di assoluta neutralità (atarassia) attraverso la disidentificazione da ogni passione, bella o brutta che sia. Il Buddha giunse perfino a considerare le passioni come carogne annodate al nostro collo, delle quali è doveroso disfarsi con gesto fulmineo e un po’ schifato. La Tristezza non fa eccezione: funziona a dosi omeopatiche ma poi va disintegrata. Se no si diventa atrabiliari e portatori insani, tristofori appunto: propagatori di un morbo che si diffonde per contagio, come la Paura o la vergiliana Fama “veloce di passi e d’infaticabili ali”.
[**Video_box_2**]La senescenza di una civiltà si misura da alcuni sintomi precisi, uno di questi è l’infantilismo e in genere si accoppia con l’autocolpevolizzazione, generando bambini depressi anzitempo e adulti fragili come bambini. Non ce l’ho con Gramellini ma con il suo fabiofazzismo (da Fabio Fazio, di cui il Gram. è inquilino in tivù). E cioè con quel languido accartocciarsi su se stessi che si fa figurina Panini, mozione degli affetti lunari e riabilitazione dell’imperfetto. E’ la sindrome di Tersite, fondata sull’autocommiserazione compiaciuta, che diventa il palinsesto del sentimentalmente corretto (sent. corr.), una trasmissione (trans-mittere=far passare da persona a persona) in prima serata, la celebrazione ingobbita di una diffidenza verso il sole e chi vanta di avercelo in tasca. Perché in fondo i fabiofazzisti ce l’hanno col Cav. e forse sono delusi da Renzi, due “imbonitori della politica che ci vorrebbero pervasi da un entusiasmo ilare e beota”. Magari hanno ragione ma in modo davvero triste: l’hilaritas è un tratto aristocratico, i Beoti erano combattenti formidabili, l’entusiasmo è la presenza del divino in noi. Il dio dei fabiofazzisti un tempo pensava positivo e andava da Che Guevara a Madre Teresa: una boiata pazzesca, ma almeno non intristiva.