Tutti i buchi del Lido
Esperimenti sociali per concludere l’estate spiaggiata: essere al Lido, nel crepuscolo del Festival, senza vedere alcun film. Via dunque dalla disperazione delle mitologiche masse che si guardano a vicenda il tesserino dell’accredito al collo e bevono fatali spritz “grandi” su panini plasticosi al Lion, il bar accanto al palazzo del Cinema.
Via anche dai ristoranti di celebri ristoratori maltrattatori. “La pizza è finita, le vongole pure, gli spaghetti anche”, ci si sente ripetere in pizzerie con sombreri, solitamente dopo un’ora e venti d’attesa. E a chi lo fa notare, camerieri molto disintermediatori rispondono: “Se lei mi ha chiamato per dirmi questo, mi sta facendo perdere ulteriore tempo”. I lidensi vivono amore e odio per il Festival, è ovvio. Il fatturato dura un mese, poi le déluge. Evitiamolo dunque anche noi questo Festival. Parcheggiata la nostra Audi A3 cabrio a Punta Sabbioni, dopo i fasti di Miss Italia, si prende il vaporetto ed eccoci qui, in una strana isola che non è campagna e non è città, ed è mare ma vede soprattutto le Alpi.
Che fare? Cercare dei posti senza tesserini al collo e facce da deportati che la sera si vendono l’anima per andare alla festa di Guadagnino. Allora si va al mercato, con Ottavia Piccolo, felice residente al Lido da trent’anni. “Ti porto al Triangolo dell’intimo”, mi dice, e si va subito in questo delizioso mercato, dove non si vede alcun accredito né “Press” né “Industry”, cioè cinematografari, eccoci dunque al mercato del martedì, mentre colleghi e amici costernati scrivono su WhatsApp: “Che fai? Io al film neorealista greco, mortacci”, io vado a questo Triangolo dell’Intimo dove si possono acquistare mutande slip in filo di scozia a 4,99, e boxer puro cotone a 3,99, districandosi tra bici e tricicli come a Forte dei Marmi.
Non compro però niente perché ho già comprato il giorno prima degli orrendi calzini a righe 100 per cento acrilico all’Oviesse sul Granviale, dove le tribù del cinema appena passate hanno svaligiato tutto (nei giorni del Festival a Venezia la minima era di 14 gradi), si son visti diversi cartellini “industry” litigare per dei maglioni e cerate, io ho preso delle calze 46 di piede, e “ti vien fuori tutto il tallone” mi dice Mariarosa Mancuso una sera).
Ma torniamo al mercato: è in questa via Riva di Corinto, dietro il casinò, passiamo dall’affollato camion del formaggio dei Fratelli Michieletto, ecco offerte sul grana doppio uso. Ma che è? “Vuol dire sia da taglio che da grattugiare”, mi dice Piccolo esperta, poi tra i formaggi c’è il Montasio Mezzano che pare una prelibatezza, poi arriviamo a un banchetto di camicie Made in italy, 18 euro, di squisita fattura, e una signorina Marina che si è fatta i capelli viola e verdi “per il Festival, e poi perché devo andare a Ischia col fidanzato!” dice alla Piccolo: e poi “ah brava, ti gà cambià marito!”, guardando a me, e scherziamo un po’, mentre il marito vero attende in macchina, e poi ci porta al bagno Alberoni, che è fichissimo, una spiaggia dell’estremo sud del Lido, di straziante bellezza e chiarore, con capanne e tutto, “dove Luchino venne a girare gli esterni di Morte a Venezia”. Perché le scene balneari non vennero girate all’Hotel Des Bains come si credeva bensì qui, e perché ovviamente il fantasma del Cinema al Lido lo mandi fuori dalla porta e rientra dalla finestra, e questo bagno dove sguazzava il piccolo Tadzio nel film (1970) oggi però ha soprattutto fotografie e memorabilia di Giorgio Gaber, non si sa perché.
Anche qui, però, niente cinematografari, dunque benissimo, proseguiamo la gita, eccoci in un altro stabilimento (il mare del Lido è bello, l’acqua è tra il grigio e il beige ma pulita, “hanno messo i depuratori” dice Piccolo). Al Pachuka (ex Paolino), anche lì capanni a righe e davanti all’Adriatico maestoso e malmostoso. C’è una tavolata di piccoli Tadzii, una decina di bambini biondi dallo sguardo mogio che mangiano delle grandi patatine fritte con bottiglioni di ketchup e maionese, è una specie di colonia estiva, spiega la proprietaria dello stabilimento, Cristina Tedesco. “Facciamo scuola di nuoto, di danza, dai cinque agli undici anni”, non c’è un professor Aschenbach a sorvegliarli ma una signorina veneta.
Però questo tema della Morte a Venezia ritorna ossessivo. Con nemesi infantile. “Una delle prime volte che siamo venuti al Lido, era il 1976” dice ancora Piccolo “siamo stati due settimane al Des Bains, con nostro figlio che aveva un anno, eravamo tutti contenti, poi ci hanno subito detto che i bambini non potevano entrare al ristorante, e che dunque andavano serviti solo in camera. Per quindici giorni abbiamo quindi dovuto mangiare in camera”.
Il Des Bains oggi è transennato e spoliato, giace spiaggiatissimo con la sua facciata da Wes Anderson. Da anni è chiuso, è passato di mano varie volte, dovevano farne appartamenti, ora è in capo a Hines, un fondo immobiliare gigante, quello che ha venduto i grattacieli milanesi agli Emiri. Qua però non è ancora saltato fuori l’Emiro che si prenda il Des Bains e il suo gemello Excelsior, pure lui nel pacchetto.
“Prova a passarci, ci sono le guardie ma magari ti fanno entrare” mi dice Piccolo, che mi dà anche in prestito la sua bici Atala fucsia, da donna (con cui mi vanterò poi “è la bici di Ottavia Piccolo”, terrorizzato che me la freghino dei ladri feticisti). Arrivo davanti all’ingresso, e c’è effettivamente una guardia nerboruta e dall’accento esteuropeo che dice che non si può entrare. La facciata è lì, perde calcinacci, vengono alla mente le brochure di tre anni fa che annunciavano “58 appartamenti di lusso e 4 ville, un boutique hotel di 15 suite”, e “le tecnologie più avanzate che colmeranno il gap tra passato e presente”. Il gap rimane lì.
A casa Piccolo intanto trovo tra i libri un “Gattopardo” prima edizione, quello giallo dei Narratori Feltrinelli, lo apro e saltan fuori le dediche di tutto il cast, come una famiglia. “To my darling daughter from her loving father”, da papà Burt (Burt Lancaster). “Alla mia carissima Ottavia dal suo Tancredi”, Alain Delon. E scatta naturalmente un’altra volta la madeleine viscontiana. “Facevo la terzultima figlia nel Gattopardo” dice Piccolo, “non è che mi ricordo molto, giravamo a villa Boscogrande, a Palermo, e Visconti naturalmente aveva cambiato tutti gli interni, aveva fatto rifare degli affreschi di cartapesta, e sono ancora tutti lì, poi la Soprintendenza li ha fatti vincolare, e adesso ci sono questi affreschi di cartapesta vincolati”.
“Anche al Des Bains c’era questa famosa sala Visconti con le boiserie” mi dice invece Gabriella Mariotti, che è stata assistente di produzione nella “Morte a Venezia”. “Lui la rifece tutta, sosteneva che girare a Venezia era impossibile, veniva fuori subito una cartolina, anche in Senso è tutto rifatto in studio”. Gabriella e il marito Dario Mariotti hanno vissuto la grande epopea dei Grand Hotel: lui era il direttore del Gritti a Venezia e poi del Mayfair Regent di New York. C’è un suo ritratto a doppia pagina di Slim Aarons su un Town and Country del 1983 che mi fa vedere nella sua casa al Lido. E’ stato anche vice presidente della Ciga, la compagnia dei grand hotel italiani voluti dal conte Volpi, inventore della Mostra del cinema e genius loci qui. “Si lavora e si fatica per i soldi e per la Ciga” dice Mariotti ridendo, evocando epoche di massimi lussi, anche per Venezia quando “all’aeroporto del Lido si atterrava con il Dc-3, ed era l’unico aeroporto di Venezia”. Si va, a questo aeroporto, è a nord, è una stupenda costruzione razionalista, si chiama Aeroporto Nicelli, ci partiva D’Annunzio per le sue scorribande aeree, è tutt’ora in funzione, ci atterrano gli elicotteri e piccoli aerei da turismo. C’è un bar e un ristorantino che guarda i velivoli. “Ultimamente un ricco signore tedesco ha provato ad atterrare, ma ha sbagliato, è ammarato sulla spiaggia dell’Excelsior”, dice Mariotti. “E’ morto?”. “E’ morto”.
“E poi c’è il Buco” dice la moglie, e tutti parlano di questo Buco, al lido, questa voragine dove “avrebbero dovuto costruire il nuovo palazzo del Cinema, ma hanno trovato l’amianto, dunque han lasciato lì tutto e ora c’è il Buco con la mostra intorno”. Il Buco al Lido è anche metaforico, è una sorta di buco nero, riguarda l’infinito problema del palazzo del Cinema – progetto del 2004 dell’archistar francese Rudy Ricciotti; scavo di un ettaro di terreno per tre metri di profondità, e poi si scopre l’amianto delle capanne “di Visconti”, dunque la Morte sotto l’Eternit; voragine; transenne e camminamenti orrendi. Oggi il nuovo sindaco Brugnaro dice che vuole “riportare il glamour al Lido”, dunque sistemare soprattutto il buco. Ma il buco è anche metaforico, che ci dobbiamo fare con ’sto Lido? Che si fa, al Lido?
Attorno al buco, di sera, nel vento, tipo Notti bianche, si aggirano le anime nere del Festival. Quelli respinti alle feste fondamentali a Venezia li ritrovi sempre qui, si fanno maltrattare nel bar ribattezzato “Terrazza biennale”; una specie di Småland Ikea con arredi di plastica bianca, drink che costano 12 euro e ti mettono una dose di alcol da proibizionismo americano, e la cannuccia è più corta del bicchiere, e ti si conficca nell’arcata dentaria. Forse sono piccoli atti di sadismo dei veneziani nei confronti dei cinematografari: che gli portano reddito, però. “Ci vediamo al buco”, si dice per andare a bere.
[**Video_box_2**]Ma non ce n’è uno solo, di buco. “Ce ne sono altri due qui nell’Ospedale” mi dice Valentina Lacchin, che insieme a un gruppo di architetti e abitanti del Lido “si sta occupando” dell’Ospedale al Mare. L’Ospedale al Mare, tra rovi e dune e macchia mediterranea, sono trentamila metri quadri di ospedali liberty, disabitati, con cinquantamila metri di spiaggia, trentatrè padiglioni di squisito Novecento balneare, “era un ospedale noto in Europa per le cure elioterapiche per i bambini”, dice Valentina. Tra i vari padiglioni, un teatrino Marinoni con soffitto affrescato raffigurante Nettuno che gioca con dei putti bambini, in colori molto Tiepolo però novecenteschi, e i bambini che gli salgono proprio in testa, a Nettuno. Nel teatrino si facevano spettacoli che venivano poi trasmessi con una radio interna a tutti i pazienti dell’ospedale. Adesso però l’Ospedale è abbandonato, è stato venduto a Cassa Depositi e Prestiti e sarà gestito pure quello da Hines. Insomma si cerca un Emiro anche per Nettuno e i suoi bambini.
Nel frattempo si son fatti un paio di buchi: “Per scavare dei parcheggi, ma poi hanno smesso, dopo aver estirpato 170 alberi secolari, quindi abbiamo anche questi due buchi qui”, dice Valentina. Intanto, Valentina e i suoi “si prendono cura”, attenzione, “che è diverso da occupare”, dell’ospedale e del teatro, e fanno mostre e organizzano attività in questa struttura che se si fosse un po’ intelligenti sarebbe un magnifico palazzo del Cinema già bello pronto, solo da restaurare, senza aspettare archistar foreste. “Non siamo punkabbestia che vogliono fare soldi vendendo birrette” dice Valentina, e coerentemente con questo spirito da occupanti “apartitici”, pagatori di bollette, ma anche con uno spirito molto lidesco, i ragazzi del Teatro Marinoni hanno deciso di non organizzare nulla in questi giorni. Le mostre partono adesso, finito il Cinema.
Quasi finito anche il nostro giro: l’ultimo giorno pranzo con Nicola Lagioia, premio Strega 2015 con il romanzo “La ferocia” (Einaudi), e selezionatore al Festival. In pratica, da fine maggio a fine luglio viene deportato qui, al Lido, con dei suoi simili. A vedere tutti i film che arrivano. Poi torna per la mostra. Gli chiedo qualcosa su com’è la giornata di uno scrutatore, mettiamo, a inizio giugno, mentre camminiamo per un viale ai Murazzi, che è un perfetto non luogo, l’unica parte del lido di edilizia intensiva, palazzoni alti sul mare, potremmo essere a Palermo o a Tirana. “Non ti posso dire niente” dice Lagioia “perché siamo tenuti a un segreto totale, non solo non possiamo parlare dei film che abbiamo visto ma neanche di come sono le nostre giornate”, e in questo non luogo adriatico la surrealtà arriva al massimo. “Non ne possiamo parlare prima di tre anni, c’è scritto nel contratto”, dice sorridendo. La giornata di un selezionatore però parte presto, questo si può dire: “Vengo a correre qui al viale ogni mattina, c’è una giapponese che vedo sempre alla stessa ora, alle sette e mezza, che fa esercizi sulla spiaggia. Una volta sono venuto dieci minuti dopo e non c’era più”. Con Lagioia constatiamo anche la stranezza degli esercenti del Lido: “Io vengo dalla Puglia, a mezzanotte è pieno di gente in giro. Qui alle undici e mezzo di sera chiude tutto. La lavanderia chiude alle sette. Fanno la pausa pranzo”. Non si capisce molto bene come ragionano, questi lidensi: “L’altro giorno siamo andati in gelateria ed era chiuso, ma non era giorno di chiusura, siamo tornati il giorno dopo, ho chiesto ‘come mai eravate chiusi ieri’, e quello mi fa: ‘perché oggi siamo aperti’”.
Ma la sera dove vai a mangiare? “Da un chiosco, quello di Andrea, lui è di Altamura, coi cugini famiglia Mariangela e Alessandro che invece sono veneziani”. E poi che fai? “C’è una libreria, ero andato a cercare il libro di Serena Vitale su Majakovskij, ma non sapevano niente, mi hanno chiesto ‘ma quando è uscito?’, ho detto Adelphi, non sapevano cos’era Adelphi”. Poi che fai? “Mah, una volta sono andato al cinema, sembra assurdo, perché dopo 12 ore in sala a vedere film, avevo voglia di andare al cinema”, ed effettivamente non ci si era chiesti se sull’isola del Festival esistesse un cinema, “ce n’è uno solo, piccolino, ci sono andato a vedere Maps to the Stars di Cronenberg”.
Intanto siamo in questo ristorante pieno di popolo del Festival e suoi derivati. Accanto a noi Stefano Bonaga con dei pantaloni militari e stivaletti. Per trovare un tavolo abbiamo dovuto faticare. Ma quando finisce la Mostra che fanno tutti i ristoratori, chiedo a Lagioia. “Vanno in Australia, credo, a giocare a golf, son tutti golfisti”. E che gente c’è qui quando non c’è il Festival? “All’Excelsior ci sono molti convegni medici, o di dentisti. Una volta ho pensato di farmi una pulizia dei denti. All’Excelsior ci sono dei vecchi clienti, c’è una contessa russa, davvero. Poi alcuni clienti l’anno dopo non li vedi più, e capisci che sono morti”. Usciamo dal ristorante, passeggiamo. “Lo capisci che è un posto surreale?” mi fa. “Li vedi quei due?”. E c’è effettivamente questa coppia, un ragazzo e una ragazza, che nel sole tiepido di inizio settembre hanno messo giù il loro telo, si son messi il costume, prendono il sole, però non sono girati verso il sole, ma verso un muro, e guardano questo muro, col mare di lato. “Questa è la parte del lido che mi piace di più. E’ anche l’unica da cui si vede il mare” fa Lagioia. Effettivamente è l’unica in cui non ci sono siepi o recinzioni a osteggiare la vista. “E’ anche la più solitaria. Il Lido è un posto un po’ purgatoriale. Se il mare fosse calmo, saremmo ai Campi Elisi”.