Tutto è gelo tranne l'anima
Marina Cvetaeva chiamò la prima figlia, nata nel 1912, Ariadna. Un nome non russo, come invece avrebbe voluto il padre, e non semplice, come invece avrebbe voluto il nonno. “Ariadna. Ma è un nome che comporta responsabilità”. Appunto!, rispondeva lei nelle sue conversazioni immaginarie, nei taccuini che, assieme alle lettere di tutta la vita, costruiscono un preciso e straziante romanzo del Novecento. Il romanzo autobiografico e quasi involontario di Marina Cvetaeva, poetessa, critica letteraria, madre passata attraverso la Rivoluzione russa, la guerra civile, la solitudine e la povertà: accendere il fuoco con i mobili, i grandi amori incompiuti, la morte di una figlia piccola, le fughe e i ritorni, l’incomprensione del suo genio, scrivere ogni giorno, a qualunque costo, per nessun altro oltre che per sé, e infine morire, impiccandosi a un gancio a cinquant’anni, nonostante la fame di amore e di vita. “Io, credimi, mi sento troppo degna di tutta la bellezza del mondo per sopportare con pazienza ogni destino!”, scriveva a vent’anni, appena diventata madre di Ariadna, la bambina col nome colmo di responsabilità (e l’infanzia, anche), chiamata da tutti Alja. Marina era piena di passione, di amore per l’amore, leggeva e scriveva e si innamorava. Ma la vita dei giorni la lacerava, la fila delle ore tutte uguali la spegneva, e lei si ribellò trasfigurando quelle ore, rendendole simili alle sue poesie, ma anche versando una verità difficile da sostenere nelle pagine dei taccuini. Nessuno è stato più spietato, a parole, con Marina Cvetaeva, di quanto lo sia stata lei stessa raccontando la vita e la morte della sua seconda figlia, Irina, in un orfanatrofio di Mosca, da sola, a tre anni (“Storia della vita e della morte di Irina: A un piccolo bambino è mancato al mondo l’amore”). E’ qui dentro la vera storia della Rivoluzione, la terribile storia del Novecento, ed è anche la storia di una donna geniale, totalmente libera e folle, appassionata, moderna, rigorosa, disordinata, capace di rifiutare, sola, ogni ideologia, di odiare senza nasconderlo la disumanità violenta del comunismo. E’ il romanzo di una madre difficile, perfino spaventosa: madre giovane, figlia di una madre morta giovane (Marina le chiese chi fosse Napoleone, la madre si arrabbiò: “Hai sei anni e non sai chi è Napoleone?”, “Come potrei saperlo? Nessuno me l’ha mai detto!”, “Queste cose si sanno e basta!”), madre che si sentiva destinata a tutta la bellezza del mondo e pretendeva dalle figlie altrettanta bellezza e bravura. Voleva delle confidenti, voleva degli specchi della propria straordinarietà, voleva una minuscola interlocutrice a cui mandare lettere e versi. Voleva amare ed essere amata dai suoi figli nel modo speciale dei poeti, chiedeva loro l’adorazione, l’affinità e il sostegno dell’anima. “Che amiche io e te! / Che orfane io e te!”, scrisse in una poesia del 1918 dedicata alla prima figlia, Alja, che a quattro anni sapeva leggere, e nella mansarda sporca e gelata dove viveva con la madre e la sorella minore Irina teneva un diario e scriveva versi, cercando l’approvazione, lo stupore e la gioia di Marina: Marina in mezzo alle macerie dei mobili le spiegava la differenza tra concetto e incarnazione, e la bambina (sei anni), dopo aver ascoltato attentamente, con una vocina acuta e dolce le faceva esempi: la Musica è il Concetto, la Voce è l’Incarnazione, il Coraggio è il Concetto, l’Impresa è l’Incarnazione, “Marina – che strano, l’Impresa è il Concetto, l’Eroe l’Incarnazione”. Queste immagini fatte di parole sconvolgenti sono arrivate qui soprattutto grazie a Serena Vitale, la più importante slavista italiana, che ha tradotto le lettere di Marina Cvetaeva, pubblicandole per Adelphi in due volumi preziosi (“Il paese dell’anima” e “Deserti luoghi”), in fondo ai quali ci sono note magnifiche che raccontano la storia, raccolgono altri punti di vista su Marina, restituiscono il personaggio, il paesaggio, il dolore e la febbre dello scrittore che Marina Cvetaeva ebbe per tutta la vita, e che talvolta le impedì di vedere le cose come erano: la fame di sua figlia Irina, ad esempio, il bisogno semplice d’amore. Marina aveva già pubblicato raccolte di poesie, a Mosca era conosciuta, ma adesso era povera e sola. “Vivo con Alja e Irina (Alja ha sei anni, Irina due anni e sette mesi) nel vicolo di Boris e Gleb, di fronte a due alberi. Niente farina, niente pane, sotto lo scrittoio 12 funt circa di patate, avanzo del pud ‘imprestato’ dai vicini – tutte le nostre scorte!”, scrive nei taccuini che Voland ha ripubblicato di recente, a cura di Pina Napolitano. Quattro anni di stenti, senza notizie del marito, vent’anni come lei, arruolato nell’Armata Bianca (“tutto in casa si è gelato, tranne l’anima”), con i vestiti logori, pozzanghere sul pavimento e polvere di segatura e la speranza che qualcuno regali un po’ di zuppa (questa è la verità dei giorni di molti, non è la trasfigurazione). Una madre di vent’anni affamata di tutta la bellezza del mondo con addosso un unico vestito marrone dentro una mansarda dove l’acqua diventava ghiaccio e dove lei e la figlia più grande scrivono versi sui muri e parlano di balli, di Incarnazione e siedono al tavolo ogni giorno, si scambiano lettere, leggono, studiano, aspettano visite, mentre l’altra bambina, più piccola, e secondo Marina ritardata, dorme o si lamenta legata alla sedia (“Ho cominciato a legarla da quando una volta, in assenza mia e di Alja, ha mangiato dalla credenza mezza testa di cavolo crudo”).
Marina Cvetaeva annota questi dettagli nel suo taccuino, e c’è qualcosa che immediatamente stride con il tentativo eroico di far sembrare bella e poetica quella povertà, con la forza pazzesca di dire, in mezzo a descrizioni di braci e bacinelle e elemosina: “Non ho annotato la cosa più importante: l’allegria, l’acutezza del pensiero, la gioia per ogni minimo successo, i progetti di lavori teatrali – tutti i muri sono ricoperti di versi”, la vita dell’anima insomma, sua e di Alja, e l’indifferenza, anzi il fastidio per l’anima di Irina, bambina piccola e affamata che nessuno prende mai in braccio, alla quale Alja getta addosso una coperta, dalla testa ai piedi, e poi grida: “Guardate, Marina! Una piramide furiosa!”, e Marina va in estasi per l’intelligenza di Alja, non corre a consolare la paura, la piccolezza spaventata di Irina. C’è una foto di Irina, nei taccuini di Voland, ed è la foto di una bambina bellissima, nel 1919, pochi mesi prima di morire di stenti, ha gli occhi scuri, non trasparenti come quelli di Marina. Lei era infastidita perché Irina non parlava bene: aveva due anni, era in ritardo, si dondolava tutto il giorno, cantilenando, nessuno la cullava, Alja la disprezzava perché sporcava sempre il letto già sporco, Marina dava ad Alja una focaccia, quando l’aveva, a Irina una patata. Per un periodo l’aveva affidata a una cognata, in campagna: “Quando l’ho portata a vivere con me era debolissima e malata, dormiva tutto il tempo, non riusciva a reggersi sulle gambine. In tre mesi era diventata irriconoscibile: parlava, camminava. Godevo della sua presenza, della sua vita, dei suoi progressi”, scrisse Lilja Efron in una lettera al marito di Marina. Avrebbe voluto tenerla con sé per sempre, ma Marina andò a riprenderla, e quello stesso inverno, sperando che avrebbero avuto pane e cioccolata e fuoco per scaldarsi, mise Irina e Alja in un orfanatrofio a Mosca. Non si può dire che abbandonò le sue figlie per scrivere versi e “vorticare a vanvera” per la città in cerca di cibo e di innamoramenti. Si disperava per le bambine (soprattutto per “la bambina”), andò a trovarle più volte e tornò sconvolta dalle loro condizioni (le teste rasate, lo sporco, il freddo, le lacrime), scriveva lettere appassionate ad Alja, e infine la riportò a casa. Ma lasciò Irina, la bambina più piccola, che già stava molto male, e sbatteva la testa sul pavimento. Sono pagine terribili, le pagine del taccuino di quell’inverno.
Sembra che Marina, in preda all’esaltazione per quella condizione estrema, non si accorga dell’esistenza, oltre che della sofferenza, di Irina. Lei è abituata ad amare gli assenti (il marito, gli altri uomini a cui scrive lettere d’amore, Boris Pasternak, le figlie), perché l’assenza è il paese dell’anima e una poetessa vive soprattutto dentro l’anima, ma non si accorge quasi mai dell’assenza di Irina (“una creatura senza futuro”). Quando decide di mandare le bambine all’orfanatrofio, scrive di Alja: “Ha trascorso gli ultimi giorni a scrivermi una lettera sul quaderno, mentre io cercavo di farla mangiare meglio, bidonando apertamente e senza scrupolo Irina”. La mattina della partenza, dice ad Alja: “Alja, capisci, è tutto un gioco. Giochi a fare l’orfana. Capisci che cosa incredibile?”, “Oh Marina!”, “E’ un’avventura, la grande avventura della tua infanzia. Capisci, Alja?”. Alja dall’orfanatrofio scriveva lettere amorose e disperate a sua madre, aveva il terrore che le strappassero di mano il taccuino e si lamentava per il chiasso dei lamenti di Irina, che piangeva e si sporcava per una continua dissenteria. Ma questo lo capiamo noi, che leggiamo: Marina no, pensava soltanto che Irina fosse ottusa (“come se avesse la testa chiusa con un tappo”), e desiderava che anche gli altri dicessero che era ritardata, per sentirsi libera di ignorarla. “Non pensavo minimamente alla sua morte”, scrive dopo la sua morte, e durante la sua vita scrive: “Vado a trovare Alja in orfanatrofio”, annotando soltanto che “nello stretto tramezzo tra la scala e la parete – Irina sbatte con rabbia la testa sul pavimento”. Marina Cvetaeva, che si innamorava di tutto, che si consegnava totalmente al primo che passava per strada, che scrisse: “Scusate l’Amore” e per l’amore e le parole e la bellezza visse ogni giorno (“Cosa ho amato nelle persone? – Il loro aspetto. Il resto – per lo più – lo facevo combaciare”), non riusciva ad amare sua figlia, perché sua figlia non aveva parole. “Irina non è mai stata per me una realtà, non la conoscevo, non la capivo. E ora mi torna in mente il suo sorriso pudico – così imbarazzato – così raro! – che lei si sforzava subito di reprimere. E come mi accarezzava la testa: “Uàu, uàu, uàu (cara) – e come – quando la prendevo sulle ginocchia (una decina di volte in tutta la sua vita) – rideva”. La vita e la morte di Irina sono state atroci, e Marina non è andata nemmeno al suo funerale: non poteva, l’altra figlia aveva la malaria e 40 di febbre. E’ tutto così irreale, è come se quella bambina non fosse mai davvero esistita. Magari quella bambina è esistita più per sua sorella, che l’aveva accanto in orfanatrofio, che ascoltava i suoi pianti e, lei stessa bambina, non sapeva consolarli, e li trovava fastidiosi.
[**Video_box_2**]“Amici miei! Ho un grande dolore: all’asilo, il 3 febbraio, quattro giorni fa, è morta Irina. E la colpa è mia”, scrive Marina in una lettera ad amici cari. Scrive: la colpa è mia, ma subito cerca di giustificarsi, dice che si torturava tutto il tempo per lei. Nei taccuini, invece, c’è la verità: “Irina! Se esiste un cielo, tu sei in cielo, comprendimi e perdonami se sono stata per te una cattiva madre, che non ha saputo superare la sua avversione per la tua natura oscura e incomprensibile”. La natura di una bambina che aveva fame di tutto (“così tanta neve, così poco pane”), come Marina, ma che non ha avuto le parole e il tempo per dirlo. E’ come se, anche nell’amore per i figli, Marina avesse bisogno della seduzione. Di essere avvinta, interessata, corteggiata, compresa. Alja per essere amata da Marina si comportò così per anni, assorbendone la scrittura, i lampi, i sentimenti, cercando di piacerle in ogni modo, elemosinando l’amore di sua madre. A un certo punto, però, verso i dieci anni, Alja si allontanò da Marina, e Marina soffrì terribilmente perché si accorse che la figlia accanto a lei era infelice, lontano da lei rifioriva: “In Alja non riconosco più nulla di me, ma so una cosa: sarà felice. Io questo (per me) non l’ho mai voluto”. Non è così purtroppo, Alja non sarà felice e verrà anche internata in un gulag. Ma già da ragazzina aveva capito quali catene la legavano a Marina Cvetaeva: “Sì, io, il figlio della sua anima, il sostegno della sua anima, io che le avevo sostituito Sereza (il marito e padre di Alja) durante tutti gli anni della sua assenza: io, dotata del più raro dei talenti: la capacità di amarla come lei aveva bisogno di essere amata: io che da sempre capivo ciò che non avrei dovuto sapere e sapevo ciò che non mi era stato insegnato, io che sentivo il rumore dell’erba che cresceva e delle stelle che spuntano in cielo; io che indovinavo il dolore di mia madre alla sua stessa fonte; io che avevo riempito di lei i miei quaderni, io di cui lei riempiva i suoi, io ero diventata una bambina normale”. Marina si irritava per le parole che Alja imparava da altri, per i nuovi modi di fare, per tutte le cose estranee, magari sguaiate, volgari, superficiali “di cui si era riempita la mia piccola nave, che per la prima volta aveva preso il largo da sola”. Ecco che cosa Marina Cvetaeva non perdonava alle persone, nemmeno alle figlie: di essere qualcosa d’altro rispetto a lei. Agli uomini, anche: di non rispondere totalmente alla sua esaltazione, alla sua capacità di sentire l’erba che cresce, di farle cadere le braccia che lei aveva spalancato incontro a loro. Di non essere abbastanza. “Per tutti questi anni, sempre qualcuno accanto, ma un tale deserto”. Marina Cvetaeva ebbe, nel 1925 (Alja aveva già 13 anni), un figlio maschio da suo marito (ma avrebbe voluto chiamarlo Boris, per l’amore che la legava a Pasternak, per il dialogo mentale che aveva con lui). L’aveva sognato, chissà forse scherzando, diverso: “Grassottello, sano, ricciuto, comune. Senza occhi cosmici, senza un’anima cosmica! – Che sia pure un attaccabrighe e un piagnucolone!”. E davvero George sarà così: viziato, ammirato dalla madre, sgarbato, scontroso. Ma lei, Marina, aveva capito: “Non so amare nulla, veramente, fino in fondo, cioè senza fondo, a parte la mia anima”. La sua sventura più grande, la sua malattia inguaribile: il suo destino di scrittore.
Questa è il primo di tre articoli dedicati alla grande poetessa russa Marina Cvetaeva (1892-1941). Tre articoli divise per temi: maternità, amore, poesia.