Quegli spazi bianchi della libertà
Cos’è cambiato al giornale danese a dieci anni dalle vignette su Maometto. Il bunker, le dimissioni, le fatwe. Westergaard al Foglio: “Finirò i miei giorni come un animale braccato, ma ci riprenderemo la libertà di espressione”
Roma. Oggi la sede ad Aarhus del quotidiano danese Jyllands-Posten è circondata da una barriera di filo spinato, sbarre, lastre metalliche e telecamere che circondano per un chilometro il giornale. L’ingresso ha lo stesso meccanismo delle chiuse dei fiumi. Si apre una porta, entra una macchina, la porta si richiude e si apre quella di fronte. I giornalisti entrano soltanto uno alla volta, digitando un codice personale (una misura che non ha protetto i giornalisti di Charlie Hebdo). Numerosi dipendenti del quotidiano hanno dovuto lasciare il giornale a causa di un forte stress psicologico. E’ soltanto una parte del prezzo pagato da questo coraggioso quotidiano libero del nord Europa per aver esercitato dieci anni fa il suo diritto alla libertà di parola e di informazione. Il Jyllands-Posten è, infatti, il quotidiano che ha pubblicato le famose vignette su Maometto. Ieri, per ricordare questo decennio di crisi e convulsioni planetarie, il giornale ha ripubblicato la stessa pagina di dieci anni fa, con un altro editoriale e nei riquadri, al posto delle dodici fatidiche vignette, tanti spazi bianchi. Una scelta tragica e impressionante di questo quotidiano che secondo il compianto Christopher Hitchens fu al centro della “notte dei cristalli della libertà”.
Il caporedattore, Jørn Mikkelsen, ha giustificato così la scelta di lasciare in bianco quegli spazi: “Il motivo per cui nessuno ha ristampato i famosi disegni, ovviamente, è la paura. La paura è una legittima emozione, soprattutto per i dipendenti di questo giornale. Abbiamo vissuto con la paura di un attacco terroristico per dieci anni, e sì, è questo il motivo per cui non abbiamo ripubblicato i disegni di Maometto, sia i nostri o di Charlie Hebdo. Siamo anche consapevoli che in questo modo chiniamo il capo alla violenza e all’intimidazione. Questo dimostra che la violenza funziona”. La settimana scorsa il Foglio ha reso noto che il convegno organizzato per celebrare il decimo anniversario dalla pubblicazione delle vignette è stato organizzato all’interno del Parlamento a Copenaghen. La Free Speech Society non era riuscita a trovare un’altra sede disponibile: per paura di attentati, tutti si erano tirati indietro.
Il leader dei conservatori in Danimarca, Søren Pape Poulsen, ieri ha dichiarato che “la paura ha preso il sopravvento. Ma continuerò a lottare ferocemente perché la violenza non vinca sulla libertà di pensiero e la libertà di espressione”. Due parlamentari, Naser Khader e Joachim Olsen, hanno entrambi scelto di ricordare ripubblicando le vignette sui loro profili Facebook. “Se i fanatici religiosi non avessero usato la violenza in risposta alle vignette, i disegni oggi sarebbero stati dimenticati”, ha scritto Olsen. “Ma i disegni ora sono un importante simbolo della lotta tra libertà e totalitarismo”. Khader è un musulmano siriano con cittadinanza danese, ma anche un liberale minacciato di morte dai gruppi islamisti. Come Ahmed Akkari, l’imam danese che infiammò il medio oriente dopo la pubblicazione delle vignette del Jyllands-Posten, il quale ha detto che “sarà probabile che qualcuno manderà due ragazzi a far saltare in aria Khader”.
Il giornalista del Jyllands-Posten che decise di pubblicare le vignette, Flemming Rose, ha scritto che dieci anni dopo si è imposto “un nuovo concetto di blasfemia per salvare la ‘pace sociale’ della società multiculturale, multireligiosa e multietnica”.
Triste il tenore anche dell’articolo ieri di Carsten Juste, direttore dieci anni fa del Jyllands-Posten, il cui volto e nome campeggia oggi nella hit list di al Qaida al fianco del defunto direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier. “Oggi dobbiamo riconoscere che abbiamo raggiunto l’esatto contrario”, ha scritto Juste. “C’è più autocensura che mai. Nessuna televisione osa mostrare quei disegni. Avevo detto che poteva soltanto peggiorare, e nessuno mi ha creduto. Oggi, poche persone nutrono dei dubbi”.
Quando Kurt Westergaard è arrivato a Princeton per una conferenza, a migliaia in pubblico mormorarono che quest’anziano vestito da anarchico fuori tempo non poteva essere il responsabile della più grave crisi tra l’occidente e l’islam. Una crisi costata 139 morti e miliardi di euro bruciati in boicottaggi. Westergaard sembrava quello che era: un nonno hippie, un ex sessantottino vestito con una giacca nera di velluto, una sciarpa rossa, calzini turchesi, camicia a quadri e scarpe da ginnastica. “Dieci anni dopo sono arrabbiato, frustrato e ho paura”, racconta al Foglio Kurt Westergaard, il vignettista autore della più famosa di quelle vignette, il Maometto con la bomba nel turbante. Tutto ha preso fuoco per la sua vignetta. Cinema, negozi, fast food, ambasciate, un prete è finito ammazzato in Turchia. Per colpire “l’uomo più odiato alla Mecca” e su cui i talebani hanno offerto fino a un milione di dollari a chi riesca a ucciderlo, arrivano da tutto il mondo. Questa campagna d’odio ha trasformato la vita di Westergaard in quella di un recluso. Salah Suleiman, l’attivista danese che avviò la protesta contro le vignette, si è detto orgoglioso che Westergaard viva “come un ratto all’inferno”.
“Ma io oggi conduco una vita normale sotto la protezione del servizio segreto danese”, ci dice Kurt Westergaard. “Tutta la Danimarca oggi ha paura di altri attacchi terroristici e comprendo perché quasi tutti i direttori di giornali e tv si stiano autocensurando. Anche io ho paura. Oggi abbiamo una libertà di espressione molto limitata. Ma non puoi chiudere la bocca a giornalisti, intellettuali, vignettisti, scrittori, artisti. Un giorno ci sarà una rivolta e se la riprenderanno la libertà di espressione. Per quanto mi riguarda invece io finirò i miei giorni come un animale braccato”.