Il fondatore di Playboy Hugh Hefner (foto LaPresse)

Le donne vestite di Playboy come antidoto alla concupiscenza degli occhi

Ora che l’hard core gratuito ingombra il 5 per cento della rete Playboy sceglie la via compassata della castigatezza, abbandona la terra di mezzo dell’erotismo nella sua versione californiana per buttarla sull’arte sensuale dei contenuti, perché tutto il resto è già stato visto, toccato, consumato, esaurito

New York. A metà strada fra il salto di paradigma culturale e la disperazione dell’editoria si incontra la decisione di Playboy di diventare un giornale di donne vestite. “Lo compro per gli articoli”, si diceva una volta, e oggi non è più uno scherzo o uno schermo. Le interviste lunghe ci sono sempre state, e pure gli articoli di attualità, ma non era che un apparato accessorio al core business hefneriano della coniglietta lasciva con la vestaglia di seta e i pizzi, e su quelle immagini generazioni di ragazzi hanno messo in discussione l’innocenza. Ora che l’hard core gratuito ingombra il 5 per cento della rete emersa l’innocenza è un vocabolo morto, e il soft patinato di Playboy, che in confronto all’estetica dell’hard casalingo sembra una cristallina forma d’arte, è finito nel cassetto dei ricordi di un’altra epoca. Penthouse aveva provato a salvarsi dall’orgia dei clic a costo zero buttandocisi in mezzo, spingendo sull’acceleratore dell’esplicito, e il mercato gli ha mostrato il pollice verso.

 

Playboy sceglie la via compassata della castigatezza, abbandona la terra di mezzo dell’erotismo nella sua versione californiana per buttarla sull’arte sensuale dei contenuti, perché tutto il resto è già stato visto, toccato, consumato, esaurito. Il corpo della modella di Hefner è un’immagine esplicita ma a suo modo inviolata, è un invito all’immaginazione, forse perfino il segnavento di una realtà trascendente. “Una bella donna mi spinge fuori di me”, scrive il filosofo francese Fabrice Hadjadj, ma il consumo pornografico su vasta scala spinge soltanto dentro di sé, è affare centripeto e solitario, la pietra tombale di quel rituale collettivo che Playboy ha amministrato con ammiccante costanza da quella volta in cui ha messo in copertina Marilyn Monroe.

 

[**Video_box_2**]Sulla rivista si vede troppo e in edicola si vende troppo poco: negli anni Settanta circolavano sei milioni di copie a numero, oggi soltanto ottocentomila, e Corey Jones, il responsabile dei contenti, è andato con le ginocchia tremanti a proporre al pater familias la più ardita delle riforme, mettere un vestito all’unico generatore di profitti della baracca, per diventare una specie di Vice per “quelli che hanno un lavoro” e sganciarsi da quella nicchia ormai attempata per cui il brand è un residuo dei bei tempi andati. L’atto del velare ciò che era nudo è uno strano destino per una società ammorbata dalla “concupiscenza degli occhi”, come direbbe Agostino, e forse non è che una misura della disperazione editoriale di una testata esausta in fase di riconversione. Ma lo svelamento odierno è gratuito e indicizzato, sempre raggiungibile, è una Ikea del porno fruibile senza chiose e articoli di contorno che distraggono dall’azione, mentre si può e si deve ancora pagare per vedere lo spettacolo più erotico, quello che spinge fuori dal perimetro del sé: una donna vestita.

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