La suburra è un mondo a sé, ma il film vuole la lezione d'impegno civile
Giovedì sera a vedere Suburra c’era anche Ignazio Marino, al suo fianco l’assessore alla Trasformazione urbana. Un sindaco che fra qualche giorno non ci sarà più, un collaboratore delegato a governare il territorio e che non c’è mai stato: è la raffigurazione icastica di un potere centrale inane. Roma è una non città, una mera giustapposizione di tracce appesantite del passato e simulacri del presente. La suburra senza che nessuno la governasse è diventata un’immane distesa di cemento e caos, all’interno e all’estero del Grande raccordo anulare, dalle colline a est scende fino al litorale, una terra di nessuno dove solo negli ultimi dieci anni si sono insediate un milione di persone. Ci sono città che il rapporto con il non governo, il disordine, l’illegalità e la violenza l’hanno nella storia e nel destino: Roma è una di queste, come Chicago, come Marsiglia. Bisognerebbe prenderne atto invece di consolarsi con la sua unicità, con la potenza simbolica universale.
Il romanzo di Bonini e De Cataldo ha avuto successo e fortuna commerciale, tanto da diventare un film e una serie in dieci puntate che sarà trasmessa nel 2017 su Netflix, per aver anticipato quello che la realtà si sarebbe incaricata di far emergere successivamente, il “samurai” Carminati, le infiltrazioni mafiose e ’ndranghetiste dal sud, gli scontri tra le principali famiglie criminali per il controllo di Ostia, il clan dei Casamonica diventato signore incontrastato del sud-est della città: ma la bella idea, probabilmente inconsapevole, del romanzo, è aver rappresentato la periferia come corpo separato al di fuori di qualsiasi controllo del centro e che è mosso da forza propria, spinto da appetiti e ambizioni legittime. E’ qui che si possono sprigionare gli spiriti animali di un capitalismo che finora ha vestito al più i panni della borghesia ricca ma miope della cosiddetta Roma nord, quella delle professioni liberali e dei circoli sportivi, culturalmente fallimentare. E’ un mondo incartapecorito di fronte al quale la suburra è un’esplosione di vita e furore, la vera porta del futuro. Nel romanzo il progetto è un waterfront, una sfilza di alberghi di lusso, residence, locali notturni e casinò, un boardwalk da Ostia a Torvaianica. Ovviamente il progetto è inquinato dalla cattiva politica, essenzialmente della destra e dalla croce celtica di un Alemanno, ci sono anche principi della chiesa affaristi e l’immancabile intreccio tra criminalità comune e finanziaria: se Bonini e De Cataldo non sfuggono ai cliché dei moralizzatori, gli sceneggiatori del film hanno stravolto il racconto originale per farci fuori tempo massimo una lezione di impegno civile.
[**Video_box_2**]Eppure un progetto come il waterfront o qualsiasi altro simile non andrebbe mai combattuto con la spada della morale: ma nonostante i rischi che comporta andrebbe incoraggiato e canalizzato perché porta nuova linfa e ricchezza vera, non sovvenzionata. Sul crimine fu fondata Las Vegas e il crimine fece la fortuna di Atlantic City: a nessuno verrebbe in mente di chiuderle perché dietro c’è il crimine organizzato e riciclaggio. L’autore collettivo italiano crede che nel racconto di genere lo scontro debba essere tra il bene e il male: e non quello tra un male e un altro, tra due opzioni comunque negative. Che non solo sarebbe più realistico e complesso, ma ci darebbe qualche capolavoro come il “Boardwalk Empire” di Martin Scorsese e allargherebbe la mente di chi governa, stretta nella morsa di una morale un tanto al pezzo.