I dolori del giovane digitale
New York. Il dizionario inglese include la parola “phubbing”, che descrive l’atto di snobbare l’interlocutore per guardare lo smartphone o un altro device. Per quelli della generazione Z il termine ha assunto un significato anche più specifico: mandare messaggi sullo smartphone senza staccare gli occhi da quelli della persona di fronte, uno snobbare più educato e socialmente presentabile. Non perdere il contatto visivo mentre le dita procedono in automatico, si pensa, ci immunizza dall’autismo tecnologico, dall’ossessione del “second screen” che serve a schermarci – appunto – dagli effetti indesiderati di una conversazione reale, ad esempio la noia, l’imbarazzo o il puro disinteresse per l’altro e le sue parole, permettendo di salvare la capra delle nostre tendenze digitali e i cavoli della realtà che è fuori dallo smartphone.
Nel suo ultimo libro, “Reclaiming Conversation”, la psicologa Sherry Turkle spiega che le cose non sono così semplici. Non basta trovare il punto di equilibrio fra vita digitale e reale per esorcizzare le tendenze sclerotiche. Il grande compromesso fra le conversazioni mediate dalla tecnologia che costantemente scorrono nel sottofondo della vita e i rapporti umani è possibile, ma ha un prezzo. Esistono comprovate sindromi da texting compulsivo, casi estremi di dipendenza dagli apparati tecnologici che costellano la vita, ma la riflessione di Turkle non è così grossolana da suggerire che siamo tutti malati, che gli schermi pulsanti e vibranti ci hanno isolato e istupidito fino a farci bere il cervello, e l’intero mondo smartphonizzato avrebbe bisogno di andare dall’analista per guarire. Più semplicemente, e sottilmente, nel gioco a somma zero delle relazioni la conversazione tecnologica ha tolto fiato a quella faccia a faccia, “la cosa più umana, e umanizzante che facciamo”. “Interamente presenti l’uno all’altro – scrive Turkle – impariamo ad ascoltare. E lì che sviluppiamo la capacità dell’empatia”.
“E’ lì – continua Turkle – che sperimentiamo la gioia di essere ascoltati, di essere capiti. Le conversazione accrescono l’autoriflessione, le conversazioni con noi stessi che sono la pietra angolare dello sviluppo iniziale e che continua nel corso della vita”. Le conversazioni tecnologicamente mediate, per lo più in forma scritta, sempre rapide, selettive, disimpegnate, largamente spogliate di tono e sottotesto, non sono per Turkle il male assoluto, ma un surrogato comunicativo che striminzisce l’attività più umana. “Siamo stati messi sotto silenzio dalle nostre tecnologie”, è la conclusione disarmata della psicologa del Mit, che è una maestra dell’analisi, non una profetessa dell’apocalisse.
Capita talvolta che gli entusiasti del vivere digitale, per dimostrare che non è la tecnologia ad averci reso antisociali, mettano a confronto le fotografie di due vagoni della metropolitana, una di oggi e una di qualche decennio fa. Nella prima gli sguardi dei pendolari sono immersi negli smartphone, nella seconda gli occhi dei presenti sono ugualmente immersi nei giornali. Qual è la differenza? Turkle, che procede nelle sue affermazioni con il metodo delle scienze sociali, dunque sempre sostenuta dal peso dei dati e dalle indagini quantitative, spiega che “anche un telefono silenzioso inibisce conversazioni rilevanti. La presenza stessa di un telefono nel nostro campo visivo ci fa sentire meno connessi, meno impegnati l’uno con l’altro”. E’ la natura dell’oggetto distraente a fare la differenza fra le due fotografie. Lo schermo dello smartphone è la via d’accesso alla possibilità di conversazioni più interessanti di quella che si sta svolgendo, è un punto di fuga che contiene tutto lo scibile della rete, dunque certamente si troveranno oggetti più intriganti delle fanfaronate dello zio brillo al pranzo di Natale o della ramanzina della mamma. E’ un rifugio sicuro, identico e sempre nuovo, la sua sola vista è un pro memoria del fatto che ci stiamo perdendo qualcosa, è una recrudescenza della “fear of missing out” per cui viviamo sempre altrove, nel giardino delle possibilità perdibili o già perdute. Con lo smartphone non ci si incarta il pesce a fine giornata.
L’effetto più rilevante di questa costante fuga dalla conversazione per Turkle è la crisi dell’ “empatia”, parola onusta di significati sociali e anche politici, non a caso messa da Barack Obama al centro della sua prima, trionfante campagna elettorale. L’empatia è la capacità di immedesimarsi con l’altro, di mettersi nei suoi panni, di sperimentare come proprie le sue gioie e i suoi dolori. Sollecitata da professori allarmati, Turkle ha visitato molte scuole americane, riscontrando, ad esempio, che i dodicenni si comportano come bambini di otto anni: faticano a giocare insieme, ad ampliare il cerchio delle amicizie, di rado sperimentano forme profonde di lealtà verso gli amici, faticano ad ascoltare, abituati come sono (dai genitori, innanzitutto) a selezionare, a troncare le chat noiose e a prolungare quelle interessanti, a bannare i troll. Applicano criteri simili alla realtà extradigitale, che di troll è piena. Senonché, sostiene Turkle, così facendo perdono un pezzo della propria identità, non sanno più chi sono, lasciano lungo la via strumenti importanti per affrontare la realtà.
[**Video_box_2**]La struttura di “Reclaiming Conversation” è costruita su una frase del “Walden” di Henry David Thoreau: “Nella mia casa avevo tre sedie. Una per la solitudine, una per l’amicizia, una per la società”. E’ la prima sedia, quella della solitudine, dell’introspezione e dell’autocoscienza, a essere stata messa in vendita nello yard sale dell’epoca digitale. Senza quella le altre due, quelle della condivisione amicale, intima, e del dialogo pubblico, diventano istantaneamente inutili. Più che un atto d’accusa contro il “nemico esterno” della tecnologia, quello della professoressa americana è un caloroso invito alla riappropriazione dei pezzi di realtà che l’invasione tecnologica ha reso trascurabili. Turkle ha il vantaggio della credibilità. Critica la tecnologia da una cattedra del Mit, non da un circolo di neoluddisti del Kentucky, agisce nel campus dove sono fioriti futurologi e transumanisti, parla dallo stesso luogo in cui Nicholas Negroponte profetizzava con entusiasmo negli anni Ottanta l’avvento di un mondo tecnologizzato e wireless. Lei stessa è stata una militante della leggenda digitale, e non ha fatto alcun voto di castità tecnologica.
Jonathan Franzen, che non si scomoda spesso per recensire libri, sul New York Times scrive che Turkle rappresenta una specie rara nel mondo dei critici della tecnologia: “Una moderata fra gli estremisti, una realista fra gli idealisti, una umanista ma non una luddista: un’adulta”. Franzen mette a fuoco la questione più importante del libro: i soggetti che l’autrice ha intervistato, le persone che ha conosciuto, gli studi sociologici che ha condotto o consultato dicono che le vittime di questo impoverimento della conversazione, attività umana per eccellenza, non la vivono come una conquista, ma come un disagio. Gli stessi compulsatori ossessivi di schermi che deviano la realtà, specialmente nei suoi tratti più spiacevoli, non amano la riduzione del discorso umano di cui sono protagonisti, quel processo che frammenta l’interlocutore “in bit e pezzetti, come se potessimo usarli come pezzi isolati per sostenere il nostro fragile io”. Questo disagio apre la possibilità di una riappropriazione della propria umanità, che non passa per la censura o l’eliminazione della tecnologia dalle nostre vite – il verbo dell’ascesi luddista che i critici le appiccicano proditoriamente addosso – ma per la sistemazione dell’elemento digitale nel suo giusto posto. Agli albori della comunicazione digitale i surrogati delle conversazioni tradizionali, osserva Franzen, erano “meglio che niente”, adesso sono “meglio di tutto il resto”, per via delle caratteristiche ben note: rapidità, disimpegno, assenza di sottotesto e strati di lettura. Ma questo ha aperto un vuoto umano, che Turkle sostiene si possa colmare ripartendo dalla domanda giusta: non “che cos’è la tecnologia?”, ma “che cos’è l’uomo?”.