Ora che Playboy desnudo diventa museo, sotto con gli storici dell'arte
Alla fine degli anni Sessanta l’America ebbe la sua piccola battaglia iconoclasta. Nella parte dei calvinisti c’erano le militanti femministe più agguerrite, le immagini idolatriche erano i paginoni centrali di Playboy. Dietro l’apparenza politica era una disputa essenzialmente teologica ed estetica; almeno, due episodi spingono a pensarlo. Nel febbraio 1969 al Grinnell College, nell’Iowa, il discorso di un rappresentante di Playboy fu contestato da un gruppo di studentesse e studenti (nudi). In un volantino accusavano la rivista di essere “un cambiavalute nel tempio del corpo”, pastiche tra i Vangeli e San Paolo; e una delle manifestanti se la prese – scelta di parole eloquente – con le “proporzioni idealizzate” delle modelle, ossia con alcuni secoli di storia del nudo. Negli stessi anni un gruppo di femministe s’intrufolò nella Playboy Mansion di Hugh Hefner a Chicago e tappezzò di adesivi i quadri esposti nella sala da ballo. Sarebbe interessante sapere quali dipinti presero a bersaglio, e perché. Quando il fondatore di Playboy si trasferì in California, volle lasciare la mansion all’Art Institute di Chicago, dove aveva studiato disegno; e nel 2010 una parte della sua collezione d’arte finì da Christie’s. Tra i quadri messi all’asta c’era un acquarello di Dalì apparso nello speciale “The Playmate as Fine Art” (gennaio 1967), con opere commissionate a Warhol, Wesselmann, Rosenquist e altri. Chi vide in quelle nove pagine un tentativo di dare legittimità estetica alla pornografia dimostrò di capire poco sia dell’arte sia di Hefner, che sotto la vestaglia di seta da “glorified pimp” è stato sempre anche un dandy ossessionato dai fantasmi dell’arte.
La storia dei rapporti tra Playboy e le Belle Arti è piuttosto intricata e attende ancora di essere scritta. Alcuni materiali essenziali – le dispute su arte e pornografia con reverendi e femministe radicali – sono in “Bachelors and Bunnies” (University of Chicago Press) della storica Carrie Pitzulo, dedicato alle relazioni, non solo conflittuali, tra Hefner e le varie anime del movimento delle donne. Ora che Playboy annuncia l’addio al nudo e l’ingresso nel suo periodo astrattista, si può finalmente visitare la collezione delle “centerfold” come fossero un museo immaginario, fitto di echi dalla storia dell’arte, di immagini ambigue come emblemi allegorici, di tranelli allo sguardo dello spettatore che svelano tutti i limiti di quelle categorie rozze nate da cattive filosofie – oggettivazione, mercificazione, deumanizzazione.
[**Video_box_2**]Al cultore delle arti o al semplice curioso segnalo alcuni pezzi da cui cominciare la visita. Il paginone centrale del novembre 1980 si rifaceva scrupolosamente all’iconografia della Venere allo specchio, come la “Venere Rokeby” di Velázquez, e giocava su quel tipo di illusioni ottiche che gli psicologi della percezione chiamano appunto “Venus Effect”. Cosa sta guardando Venere, il proprio riflesso o il nostro? Altre pagine ricorrevano all’espediente del quadro nel quadro o a varie forme di mise en abyme. La playmate del settembre 1956 appendeva una natura morta del Picasso cubista, quasi chiedendo consiglio allo spettatore su come metterla dritta. John Berger avrebbe potuto scriverci un trattato, e altrettanto avrebbe potuto fare sul numero dell’agosto 1972, dove Linda Summers, sdraiata in spiaggia, teneva davanti a sé il paginone di Cosmopolitan su cui Burt Reynolds era apparso nudo in una posa identica alla sua. Ma ora che il museo di Playboy sta per chiudere, e così anche noi, terminiamo la visita frettolosa con la playmate del luglio 1961. Rifaceva la “Grande Odalisque” di Ingres, ritratta di schiena, la testa voltata verso lo spettatore. Tra le dita teneva la cordicella di una lampada, con la minaccia di far calare il buio e lasciare il lettore davanti a due pagine nere.
Guido Vitiello