L'Apocalisse a Roma? Ma quando mai. Il tempo qui è beatamente dilatorio
E’ più facile per un cammello (eccetera) che per un marziano andarsene da Roma. Non se ne va il Kunt di Flaiano, resta a fissare Marte da Villa Borghese perché gli hanno pignorato l’aeronave; non se ne va il Bix di “Ciao marziano”, dispensabilissimo film di Pingitore con Pippo Franco dipinto di verde, perché una bomba gli impedisce di decollare dal Colosseo. E per quanto Marino si sforzi di suggerire l’associazione tra il Campidoglio e la Moneda sotto assedio c’è poco da fare, il suo elaborato bubù-settete istituzionale offre una terza e apprezzabile variazione sul tema, con un tocco di pochade che forse avrebbe scontentato Flaiano. Tanto basta a smascherare il grande equivoco di “Suburra” di Sollima, che a sua volta è solo un caso di un malinteso più generale e più longevo, quello del noir epico-fumettistico come via maestra al racconto dell’Italia (per poco non ci cadeva pure Virzì, il solo a tenere alta la bandiera della commedia). E’ atterrato nel galoppatoio di Villa Borghese, non da Marte ma dalla ben più aliena America, un cargo di merci d’importazione: il millenarismo evangelico e puritano, il countdown apocalittico, il moralismo un po’ funereo, la notte perenne, la pioggia purificatrice, e soprattutto il mito della città decaduta e dannata, la Los Angeles di Ellroy e di Connelly, la Sin City dei fumetti di Frank Miller. Ma è tutta roba che fatica ad acclimatarsi, anche se resterà a lungo (nuovi guasti all’astronave).
“La realtà ha scavalcato la finzione cinematografica”, dice Amendola, lui che con il suo personaggio ne è la smentita vivente. Il Carminati delle fiction – che lo si chiami Nero o Samurai – muore più spesso di Kenny di South Park, lo ammazzano sempre e con grande teatralità; nella realtà non escludo che ce lo ritroveremo a presentare un talk-show su una tv locale, come Licio Gelli. Il film di Sollima scorre all’ombra di due troni vacanti – il Papa e il capo del governo – quasi ad aprire uno scenario frazeriano di cupa dissoluzione durante la malattia del re; ma qui tutti i troni sono vacanti e nessuno lo è, a partire dal Campidoglio, e una città ostinatamente acefala rende ridicole le metafore organiciste sul corpo che segue il destino del capo. L’Apocalisse, a Roma? Meglio rileggere qualche pagina feroce di “La civiltà del malumore”, magnifico piccolo libro di Edgardo Bartoli: Roma vive di “una riluttanza inconscia a raggiungere conclusioni quasi per gustare più a lungo il tempo benigno che accarezza le giornate”; quanto alle attese e alle speranze, “questa città solennemente corporea non ha mai apprezzato i pensieri rivolti al futuro, ritenuti sommamente futili sin dai tempi di Orazio”; ancora, “attendere da un futuro non contiguo al presente qualche epifania premiatrice, significa pensare il nulla, ossia pensare per assurdi. E all’assurdo, che è fonte di angoscia, i romani hanno sempre preferito la volgarità”.
[**Video_box_2**]Il tempo a Roma non è apocalittico e neppure beatamente pagano: è dilatorio, per aver assorbito una variante particolarmente strafottente del cattolicissimo principio del non praevalebunt. Per questo invidio un poco quelli che nell’acquazzone ininterrotto di “Suburra” hanno visto segni dei tempi, presagi, il liquefarsi di un mondo marcio, o perfino la pioggia di fuoco e zolfo su Sodoma. Io pensavo piuttosto allo stillicidio inconcludente di Montale (“Piove senza che il vento smuova le carte”). O, al limite, mi ingegnavo a parafrasare Flaiano: a causa del cattivo tempo l’Apocalisse è stata rinviata a data da destinarsi.