Il golpe contro Kant
Esce questa settimana negli Stati Uniti e in Canada (McGill-Queen’s University Press) “The Philosophy of Gesture” di Giovanni Maddalena, filosofo torinese-molisano, esperto di pragmatismo americano, in particolare di Charles S. Peirce. Il libro propone una nuova filosofia pragmatista, basata sul valore razionale di alcune nostre azioni: i gesti completi. E’ stato presentato in anteprima in un corso tenuto all’Ecole Normale Supérieure di Parigi nel maggio scorso. La prefazione del libro è del noto matematico e filosofo colombiano Fernando Zalamea. Grazie a un accordo con l’editore, pubblichiamo una parte dell’introduzione, che dichiara un profondo antikantismo come chiave del pragmatismo, alternativo sia alla dominante filosofia analitica che all’ermeneutica (N.B. titoletti e corsivi sono nostri, non dell’autore).
Da quando Immanuel Kant scrisse la “Critica della Ragion Pura”, il vero spartiacque della modernità, i filosofi hanno tentato di completare il suo progetto critico oppure di rigettarlo. In misura ancora maggiore di Cartesio, Kant ha obbligato i filosofi futuri a prendere posizioni chiare nei suoi confronti, fossero esse positive o negative. Tutto ciò perché il progetto di Kant riflette e dà forma all’intera mentalità del mondo contemporaneo. Kant aveva ragione nel dire che il suo statuto critico era una rivoluzione copernicana. In confronto, la rivoluzione di Cartesio non era che un semplice migliorismo applicato alla vecchia tradizione scolastica alla quale si opponeva. Molti autori hanno persino dubitato del fatto che quello cartesiano sia un vero e proprio rifiuto della scolastica. E’ ancora possibile leggere il suo lavoro come un completamento di quanto era stato detto prima di lui. Non si può dire lo stesso di Kant: quando la rivoluzione copernicana fu dichiarata, la modernità assunse la sua forma contemporanea. Quella di Kant non fu un’operazione migliorista, ma un colpo di stato sulla mentalità filosofica e sul ragionamento. Questo libro [“The Philosophy of Gesture”, McGill-Queen’s University Press, ndr] si propone di fornire un’alternativa pragmatista nei confronti di alcuni aspetti cruciali della filosofia di Kant. Questa alternativa non è stata ancora esplorata all’interno del panorama filosofico contemporaneo, nemmeno dai pragmatisti classici, i quali spesso accettarono involontariamente aspetti dell’eredità di Kant.
Di fatto, possiamo tracciare la storia della filosofia contemporanea a partire da Kant. Sia le filosofie analitiche sia quelle continentali – nella misura in cui questa distinzione ha ancora senso – traggono la loro forma dal progetto di Kant. In un certo senso, entrambe sono realizzazioni o completamenti del pensiero di Kant. La filosofia analitica prese seriamente la distinzione tra giudizi (e ragionamenti) analitici e sintetici, conferendo ai primi una supremazia che inizialmente tentò di inglobare i secondi oppure di abbandonarli a regni belli e “inutili” quali quelli dell’etica, dell’estetica, della politica, della religione. Successivamente, la filosofia analitica ha assunto un modello più complesso, ma – come indicato dal nome – il suo fondarsi sull’analisi è rimasta una caratteristica centrale. A dire il vero, ci sono state forti critiche alla distinzione analitico/sintetico a partire da W.V.O Quine (1951) in poi, ma si trattava di critiche interne alla medesima tradizione. Fortunatamente esse indebolirono l’assolutismo della prima fase, ma purtroppo non rovesciarono la profonda intuizione kantiana che era alla radice di questo modello di filosofia.
Fenomenologia ed ermeneutica provarono a usare un metodo diverso che, tuttavia, considero ancora kantiano. Presero la svolta soggettiva della rivoluzione kantiana tanto sul serio da rischiare di incorrere nel solipsismo o nell’arbitrarietà. Entrambe le filosofie attaccarono Kant molte volte da diversi punti di vista, ma rimasero involontariamente attaccate al suo progetto. Il progetto di Edmund Husserl rimase analitico. Egli, infatti, fece ancora una volta un’analisi del nostro atteggiamento fenomenologico nei confronti della realtà, e nelle Meditazioni cartesiane (1931) inclinò addirittura verso una svolta solipsista. D’altro canto, l’ermeneutica si è spesso basata su un’interpretazione della filosofia trascendentale filtrata attraverso l’idealismo tedesco e la sua eredità kantiana. Sebbene alcuni singoli punti dell’opera di Kant siano stati criticati o rovesciati, il modello generale della sua filosofia permane persino oggi nella nostra mentalità filosofica e nel nostro senso comune.
Che cosa è ancora in piedi di quel progetto? Quali sono i punti che una nuova proposta dovrebbe affrontare? La filosofia di Kant permea le filosofie che si sono succedute dopo di essa in molti modi, ma ci sono tre risultati che sono particolarmente rilevanti in rapporto a quello che voglio proporre.
La ragione “misura di tutte le cose”
Il primo effetto dell’eredità di Kant è la nozione generale di ragione, che si basa su una certa concezione di necessità. Anche se Kant si sforzò di raggiungere una visione ampliata della ragione e del ragionamento che potesse dare conto della nostra capacità sintetica di cogliere o costruire la realtà, egli fondò sempre il suo impianto speculativo su un modello razionalista di necessità composto dalla relazione gerarchica tra parti e tutto. Spero di mostrare nei capitoli successivi e in modo tecnico come questo schema agisca sotto traccia nel progetto di Kant. Per adesso mi limiterò a dire che questo schema produce una visione della ragione tipica dell’illuminismo, secondo la quale la ragione è la “misura di tutte le cose”, sebbene questa misura differisca largamente dalla sua versione utilitarista e protagorea. Kant non è assolutamente un utilitarista. La ragione racchiude ciò che chiamiamo esperienza in modo che nulla possa sfuggirle, ma all’interno del cerchio la ragione deve dare conto di ogni fenomeno in modo analitico, al di là di ogni considerazione sull’utilità. Questa immagine della ragione è rimasta la stessa in ogni successivo tipo di filosofia e sta alla base dell’atteggiamento analitico. Mettendo da parte i complessi discorsi sull’idealismo in generale, e in particolare su Hegel, possiamo affermare che nel XX secolo la ragione è rimasta connessa con questa immagine di necessità e con un certo tipo razionalista di spiegazione. L’unica differenza tra le filosofie novecentesche consiste nel fatto che questa spiegazione era ridotta ad alcuni campi (neo-positivismo) oppure era rigettata come il tragico risultato di un possesso progressivamente tecnologico dell’Essere, come avviene in una certa ermeneutica ispirata da Heidegger.
I fenomenologi e i pragmatisti vollero superare la filosofia kantiana ma assunsero involontariamente il medesimo schema necessitarista: alla fine anch’essi non fecero altro che cercare i componenti esatti del “tutto” della conoscenza. Lo stesso [Charles S.] Peirce alla fine adottò involontariamente il medesimo schema, anche se fu forse il più scaltro nell’identificare il problema centrale del razionalismo il cui ragionamento assomiglia a una catena, la cui forza dipende da quella del suo anello più debole, invece che assomigliare, più realisticamente, a una corda, la cui forza dipende dall’unità tra i diversi fili. Purtroppo, neanche Peirce portò questa considerazione fino alle sue estreme conclusioni di critica all’analisi e allo schema di necessità che vi presiede. […]
Morale e moralismo
Il secondo effetto dell’eredità kantiana che la nuova proposta deve considerare è la visione della morale. Kant fa di un certo tipo di autonomia il punto centrale della sua teoria morale. L’idea che la vera moralità dovrebbe essere sostenuta autonomamente è parte del modo generale in cui concepiamo il mondo. Dai giornali e dagli show televisivi fino ai giudizi privati su noi stessi, la moralità è diventata moralismo. Che cos’è il moralismo? Il moralismo consiste nel prendere un valore, nel credere in esso come se fosse un Dio – la Bibbia lo chiamerebbe un idolo – e successivamente nel sacrificare noi stessi e ogni nostro sforzo al fine di realizzarlo, misurando noi stessi e gli altri secondo le regole schiavizzanti che derivano da esso. I valori diventano idoli, e gli idoli diventano ideologie. La trasformazione dei valori in idoli e degli idoli in ideologie è accaduta nel secolo scorso nell’inquietante forma dei vari governi totalitari. Ma una simile trasformazione può accadere in ogni vita individuale. Ognuno può essere ideologico nel suo lavoro, nella sua fede, nella sua comunità, nella sua famiglia. La società del diciottesimo secolo fu ideologica e moralista a proposito del sesso esattamente come la nostra società è ideologica a proposito dell’onestà, dei diritti individuali e della salute.
Qual è il rapporto tra la purissima morale kantiana e l’ideologia? E, più difficile ancora da argomentare, con il totalitarismo? La moralità kantiana abbandona la complessa visione della realtà sostenuta per secoli dalle diverse forme di moralità realista a favore di una concezione della realtà intellettualista e centrata sul soggetto, che si riflette in una moralità basta su sforzo e auto-determinazione. Una volta abbandonata la visione realista della morale, e l’eteronomia che la contraddistingue, con il suo equilibrio tra diversi valori, la tenacità infondata delle ideologie ha il campo libero per una facile vittoria ed è poi propugnata dai suoi rigidi guardiani. Si può essere molto morali e devoti al dovere mentre si aiuta una macchinazione omicida che soddisfa i propri principi (Arendt 1963). Certo, si può sostenere che questo atteggiamento intellettualista sulla moralità risale addirittura all’intellettualismo greco da Socrate in avanti, ma in ogni caso mai l’intellettualismo si è affermato in modo così potente come dal momento in cui si è alleato con la rivoluzione copernicana di Kant. Dato l’impianto generale della conoscenza fornito dalla “Critica della ragion pura”, il moralismo intellettualista ha acquisito un potere immenso. La concezione di moralità impostata da Kant influenza tuttora la mentalità quotidiana, molto di più che la sua riformulazione proposta da John Rawls o la sua traduzione critica fornita da Jürgen Habermas. […]
[**Video_box_2**]Scienze naturali e scienze umane
L’ultimo effetto dell’eredità di Kant è visibile nelle separazioni tra campi di ricerca e tra discipline. La famigerata radicale separazione tra scienze naturali e scienze umane (sciences and humanities) che così tanto influenza la cultura occidentale – con profondi inconvenienti, soprattutto in questi tempi di crisi economica e sociale, in cui avremmo bisogno di una mentalità creativa, unitaria – è largamente dovuta al sistema critico che Kant propose con estremo successo. Certamente questo gap fu nutrito e aiutato dall’idealismo e dal positivismo nel Diciannovesimo secolo, e dall’ermeneutica, dall’esistenzialismo e dal neopositivismo nel Ventesimo secolo. Ma, ancora una volta, è la rivoluzione copernicana di Kant che soggiace a questa raffigurazione generale della conoscenza. Inoltre, la riabilitazione della filosofia pratica nelle sue molte forme non avviene al di fuori dell’immagine kantiana della conoscenza. La riabilitazione della phronesis contro l’episteme accetta il fatto che l’episteme non sia conoscenza pratica, confermando il chiasmo tra regno teoretico e regno pratico consacrato da Kant. […]
Una visione diversa
In questo libro dimostro come il pragmatismo, inteso in un certo modo, suggerisca una visione diversa della filosofia, che capovolge i tre effetti dell’eredità kantiana. Quindi, in un certo senso, lo scopo di questo libro è simile a quello di Richard Rorty nei suoi “La filosofia e lo specchio della natura” (1979) e “Conseguenze del pragmatismo” (1982). Qui egli identificava giustamente Kant come l’avversario polemico del pragmatismo, ma non riusciva a coglierne la ragione profonda. Rorty pensava che l’avversione si incentrasse sulla teoria della rappresentazione, esito ultimo di una tradizione metafisica fondazionalista. Rorty era così convinto di questa sua idea da escludere il lavoro di Peirce, costitutivo del pragmatismo, dalla sua narrazione della storia del pragmatismo. Secondo Rorty, Peirce era troppo affetto dalla visione della conoscenza kantiana. […] Se Rorty avesse voluto curarsi un po’ di più di una fedele ricostruzione storica e filologica, si sarebbe accorto che Peirce stesso era molto più anti-kantiano di quanto non sia normalmente considerato e che la sua teoria della rappresentazione era molto diversa da quella kantiana. […]
Paradossalmente, proprio Peirce è il punto di partenza di una nuova alternativa al kantismo. […] Peirce, infatti, lavorò alla possibilità di una comprensione diversa della sintesi – il modo con cui acquisiamo nuove conoscenze – dagli studi giovanili su ipotesi e induzione fino alle formulazioni mature dell’abduzione e dei grafi esistenziali. […]
Un nuovo modello di sintesi
Da qui, però, comincia un nuovo cammino pragmatista, oltre Peirce. Occorre proporre un nuovo modello di “sintesi”. Grazie agli studi condotti con il matematico colombiano Fernando Zalamea proporrò un nuovo paradigma basato sul concetto peirceano di continuità e sui suoi grafi esistenziali. Il ragionamento sintetico sarà descritto come “riconoscimento di un’identità in un cambiamento” e si troverà questo ragionamento incarnato in un tipo di azione che chiamerò “gesto completo”. I gesti sono il modo con cui noi portiamo avanti un significato, come dice l’etimologia della parola (da gero=portare). I gesti completi sono quelli in cui noi acquisiamo sinteticamente un nuovo significato. […] Poi applicherò questa nozione di gesto a temi come l’identità, la creatività, la morale e l’educazione. Spero che queste applicazioni giustifichino l’importanza dei gesti completi e introducano uno strumento nuovo e fruttuoso nel nostro panorama filosofico.