Il Dolphinarium e il Bataclan
Bruxelles. Il 13 novembre 2015 a Parigi sarà per gli europei quel che è stato il 1° giugno 2001 a Tel Aviv per gli israeliani? “Questa notte ho sognato che la mia donna di servizio si presentava a casa con il velo e si faceva esplodere”, mi ha detto ieri un’amica, spiegandomi di essere rimasta scioccata dalla notizia di una attentatrice suicida belga che si è fatta esplodere durante il blitz di Saint-Denis di mercoledì, nel quale è stato ucciso l’organizzatore degli attacchi a Parigi, Abdelhamid Abaaoud. “Ho paura”, ha sintetizzato un ragazzo, mentre suonano le sirene di un furgone della polizia che trasporta un detenuto verso il tribunale di Bruxelles. “Ho detto ai miei figli di non prendere più autobus e metropolitana”, mi ha raccontato una mamma di fronte ai soldati col mitra che presidiano la stazione della metro di Schuman, su cui si affacciano i palazzi delle principali istituzioni dell’Unione europea.
Sono parole simili a quelle che mi erano state dette da una mamma franco-israeliana sulla terrazza di casa sua a Tel Aviv nel 2002, a un anno e mezzo dall’inizio della Seconda Intifada: “Non prendo più gli autobus. Non dormo più la notte per il timore di ricevere una telefonata dalla polizia, quando mio figlio esce la sera. E ho il terrore di chiamarlo, perché ho paura che non risponda al telefono. Lo aspetto sveglia, fino a quando non sento la porta di casa aprirsi. L’attentato alla discoteca del Dolphinarium ha cambiato tutto”.
Dal 28 settembre del 2000, giorno della visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio che servì da pretesto per la rivolta dei palestinesi, all’8 gennaio del 2005, quando al summit di Sharm el Sheikh il neoeletto presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen dichiarò la fine della violenza, sono stati compiuti circa 150 attacchi contro Israele. Più di mille israeliani sono morti per mano di attentatori palestinesi. E’ difficile incontrare una persona in Israele che non abbia un parente o un amico tra le vittime (morti o feriti) della Seconda Intifada. Ma l’attentato al Dolphinarium è quello che ha segnato più profondamente la psicologia degli israeliani.
L’estate è appena iniziata. La sera del 1° giugno 2001, all’entrata della discoteca sul lungomare di Tel Aviv si affollano giovani e giovanissimi, in gran parte immigrati dalla Russia. In fila c’è anche il ventiduenne palestinese Saeed Hotari, che alcuni scambiano per un ebreo ortodosso sefardita, ma in realtà è inviato da Hamas. Ha in mano un tamburo e inizia a ripetere in ebraico “qualcosa sta per accadere”. Alle 23 e 27 fa esplodere la sua bomba: il tamburo era stato riempito di chiodi e pezzi di metallo. L’allora ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, sente l’esplosione dal suo albergo a poche centinaia di metri e corre a vedere, mentre il lungomare di Tel Aviv si trasforma in un ingorgo di ambulanze. Diciassette persone muoiono sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. La vittima più giovane ha 14 anni, quella più anziana 32. Il numero di feriti supera il centinaio, in gran parte ragazzini che erano andati “solo” a ballare. Come i giovani al concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan.
“Non voglio cambiare la mia voglia di vivere”
“In quel momento abbiamo perso l’innocenza”, mi diceva la mamma franco-israeliana nel 2002. La Seconda Intifada fino ad allora era stata considerata una specie di “evoluzione tecnologica” della Prima Intifada: le bombe avevano preso il posto dei sassi ma – almeno per l’opinione pubblica progressista fedele al Labur o al Meretz – era parte di un lungo conflitto, che si sarebbe potuto risolvere attraverso i negoziati: il processo di Oslo, la soluzione dei due stati, il dialogo con palestinesi ragionevoli avrebbero messo fine alla violenza. Invece al Dolphinarium è cambiato tutto. A essere presi di mira non erano più i “coloni”, i giovani soldati di leva mentre rientravano per una licenza o le fermate degli autobus vicino alle caserme. Il bersaglio erano diventati gli innocenti più innocenti: giovani spensierati quindicenni, sedicenni, diciassettenni. E di Dolphinarium ne sono seguiti altri. Il 9 agosto 2001 15 persone muoiono in un attentato contro la pizzeria Sbarro di Gerusalemme. Il 9 marzo 2002 11 giovani saltano per aria al Café Moment di Gerusalemme. Il 31 marzo 2002 15 morti al ristorante Matza di Haifa. Il 31 luglio 2002 9 giovani vengono uccisi all’Università ebraica di Gerusalemme. Il 30 aprile 2003 un kamikaze con passaporto britannico di origine pachistana si fa esplodere al Mike’s Place di Tel Aviv provocando 3 morti. Il 9 settembre del 2003 7 persone vengono ammazzate al Café Hillel di Gerusalemme.
Sabato 15 giugno 2002, con Marco Pannella, Yasha Reibman e altri compagni radicali, ero alla riapertura del Café Moment. Il locale è quasi deserto. Al bar, c’è un ragazzo scampato all’attentato di tre mesi prima che ha ricostruito il Moment esattamente com’era: “Non voglio cambiare la mia voglia di vivere per paura della morte”, dice. Sembra Parigi sabato 14 novembre 2015: “#TousAuBistrot! #TousEnTerrasse!”, si legge su Twitter, affianco a foto di locali semideserti. Sembra di sentire Tony Blair dopo l’attacco a Londra del 7 luglio 2005: “They will never destroy our way of life”. Giusto, vero e domenica non rinuncerò al pranzo con i miei figli in un ristorante vicino al Museo ebraico di Bruxelles che, viste le sue vetrine, potrebbe tranquillamente essere crivellato da un kalashnikov.
Salvo che Israele e gli israeliani sono profondamente cambiati, quando si sono accorti di avere di fronte un’ideologia totalitaria, che assassina in modo indiscriminato sulla base del principio “tutti gli ebrei devono essere gettati in mare”. Le mamme hanno paura per i figli che escono la sera. Chi può non prende l’autobus. Ariel Sharon si ritira da Gaza contro la volontà dei “suoi” settlers e avvia la costruzione della barriera di sicurezza (il famoso “muro” tanto deprecato dagli europei, che ha salvato migliaia di vite negli ultimi anni della Seconda Intifada) che di fatto sancisce dei confini con un eventuale futuro stato palestinese. Il Labor diventa irrilevante, con i suoi ex elettori che eleggono i “falchi” Ariel Sharon, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu o votano i “falchetti” Isaac Herzog e Tzipi Livni.
Martedì 18 giugno 2002, tre giorni dopo la riapertura del Café Moment, una bomba di Hamas uccide 19 persone su un bus all’incrocio di Patt a Gerusalemme. Mercoledì 19 giugno 2002, ero nella città vecchia di Gerusalemme quando sento in lontananza un’esplosione: un attentatore si è fatto saltare per aria a una fermata dell’autobus alla Collina francese di Gerusalemme. Corro sul posto: 7 morti e 35 feriti. Registro per Radio Radicale le parole di condanna dell’allora sindaco Ehud Olmert. Racconto in diretta quel che è accaduto. Poi, fino a tarda sera, rimango a guardare inebetito la nuova normalità degli israeliani: cadaveri raccolti pezzo per pezzo, ma domani si va al lavoro, mentre il resto del mondo continua a pensare che “un po’ è colpa degli ebrei”.
[**Video_box_2**]Una nuova normalità
Oggi mi chiedo se gli europei comprendono che c’è una nuova normalità dopo Parigi: se noi ci sveglieremo dal lungo sonno, da cui gli israeliani si sono risvegliati il 1° giugno del 2001. Fino al Dolphinarium, in Israele ci si poteva illudere che il nichilismo di un attentatore suicida potesse avere come causa la liberazione palestinese. Fino al 13 novembre 2015 gli europei si sono illusi che i bersagli dell’ideologia totalitaria e assassina fossero “altri”, guardati spesso come colpevoli di qualche forma di ingiustizia. L’11 settembre 2001 è l’imperialismo americano a essere colpito. Il 19 marzo 2014 alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa, il 24 maggio dello stesso anno al Museo ebraico di Bruxelles, il 9 gennaio 2015 all’Hyper Cacher di Parigi sono gli ebrei complici di Israele a essere uccisi. Il 7 gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi e il 14 febbraio 2015 al Krudttønden cultural centre di Copenaghen è la stampa blasfema che si vuole sterminare. Il 13 novembre 2015, mentre 128 di noi vengono massacrati da un manipolo di piccoli Hitler, ci siamo resi conto che siamo tutti israeliani e parigini? Altrimenti, siamo tutti spacciati.