Mercanti in fiera. L'ultimo sogno-rifugio di noi occidentali
“Quando sei arrivato?”
“Quanto ti fermi?”
“Bene, allora ci vediamo a Parigi!”
Questa, di fatto, è l’essenza degli incontri occasionali, previsti e ripetuti a oltranza, avvenuti nei corridoi di Frieze, la fiera dell’arte contemporanea di Londra. Ci si vede da anni ma non si può dire di essere amici, forse colleghi ma con pochi interessi in comune. Di fatto si ha poco da dirsi ma ci si rivolge la parola anche solo per sancire la reciproca appartenenza al clan, con successivo appuntamento nella prossima città in calendario (Parigi), dove ancora una volta ci si dirà poco o nulla. Giunta al tredicesimo anno, Frieze recentemente ha perso un po’ di lustro e ha quindi deciso, da tre anni a questa parte, di raddoppiare e presentare una seconda fiera Frieze Masters dedicata all’arte più classica, meno “questo lo potevo fare anch’io” insomma. Frieze è appuntamento importante, sancisce l’apertura fieristica della stagione, anche se certi le stagioni non le distinguono più. C’è chi l’estate l’ha passata alla fiera di Seattle costruita ad hoc, intorno ad una sola-figura-sola, il cofondatore di Microsoft, il magnate collezionista Paul Allen. Succede anche questo.
Abbiamo perso poche edizioni di Frieze dal 2003, vuoi per curiosità, vuoi per senso di professionalità, vuoi per divertimento ma anche per Fomo (Fear Of Missing Out) quella patologia che affligge i componenti di una comunità, che in essa si identificano, rischiando di rimanerne intrappolati. Il mondo dell’arte (ce ne sono molti ma qui si tratta di quella fetta benedetta di addetti ai lavori che si occupano di arte moderna e contemporanea) è composto da un numero ristretto di figure, quindi ci si osserva, ci si controlla, un po’ come in una città di provincia italiana. Negli ultimi anni tale mondo si è dannatamente espanso per la gioia di tutti i globalisti che vedono arrivare freschi capitali arabi, russi, cinesi, indiani, filippini, etc. Come diceva un celebre musicista hip-hop, more money, more problem e già ci sono i nostalgici che lamentano la progressiva sparizione del “gentlemen agreement”. La stretta di mano vale sempre di meno. Nonostante le sue proporzioni globali, si tratta di un organismo ristretto ma elastico, che fa delle relazioni personali la sua cifra distintiva, senza mai farci dimenticare che si appartiene a un’elite che ostenta sorrisi dall’accento anglofono.
Questo mese ci si muove in successione tra Londra, Parigi e Beirut per occasioni ufficialmente distinte ma motivate dal reale bisogno di ribadire l’appartenenza a una comunità. A Londra gli incontri avvengono sotto una gigante tenda issata a Regent Park, che raduna 160 gallerie pronte a spendere fino a 90 mila sterline per proporre le loro opere. Come un circo nomade appunto, solo che la tenda è di un bianco candido, mancano le classiche strisce rosse o blu, sennò, li dove tutto diventa arte, verrebbe forse confusa con un’opera di Daniel Buren.
C’è chi viene per cercar di capire quale sia lo stato dell’arte odierno, chi per sperare di scoprire nuovi talenti da includere in una mostra, chi invece per appuntamenti, capitalizzando la fortunata circostanza di trovare “tutti” nello stesso luogo, allo stesso momento. C’è anche chi compra e vende arte. Trattandosi di una fiera sembra legittimo, ma il vero successo delle fiere è dato appunto dall’essere diventate una piazza (nell’art-english si preferisce il termine “piattaforma”) dove tutto avviene, accordi, scoperte, intrighi. Tutto gira intorno a un mercato gonfio di creatina, dall’aspetto tonico ma dal futuro (imminente aggiungiamo noi) più che incerto.
Le fiere sono la formula di successo del mondo dell’arte negli ultimi dieci anni. Dal mattone si è passati al quadro, il bene rifugio di questi tempi, almeno finché il gioco reggerà (poco, insistiamo noi leggermente infastiditi dalla convinzione che tutto questo flusso di denaro paralizzi la creatività, il senso del rischio, la necessità di cambiare punto di vista). Le gallerie sono sempre meno interessate a presentare mostre ma pensano a partecipare, sempre che vengano ammesse, a più fiere possibili (fino a 12-15 l’anno), “perché è lì che oggi si vende”. Le opere vengono quindi richieste agli artisti appositamente per le fiere per poi finire spesso nelle case di collezionisti, riducendo così drasticamente la loro vita pubblica (se non su Instagram). Ma il motivo trainante di tale successo è di natura popolare che, per paradosso, legittima l’élite degli appartenenti al clan. I biglietti per Frieze sono quindi esauriti quest’anno. Con 23 sterline (35 per entrambe le fiere) si accede a una tenda per poter andare a guardare chi vende e compra arte, perché chi il biglietto lo paga è spettatore e non sarà mai lì per acquistare: cosi come accadeva nel dopoguerra, quando il padre proponeva al figlio di andare a vedere la gente abbiente che mangiava il gelato.
I giochi avvengono il giorno della preview, quando l’élite munita di vip pass non deve certo immischiarsi con chi si mette in fila per dover acquistare un biglietto. Martedì sera, fino a mezz’ora prima della chiusura, gli invitati ancora attendevano per riuscire ad entrare e poter dar seguito al loro programma mondano dell’esserci, vedere e, forse, essere visti. L’arte rimane sullo sfondo, splendida cornice glitterata.
Dal giorno successivo ci si riversa nella città e nelle sue numerose gallerie, i suoi straordinari musei. C’è sempre un vincitore, sempre una mostra prediletta da tutti, sempre la stessa. Sentirla nominare ci informa più su quanto la persona sia informata che sul suo gusto personale. Questo era l’anno dell’apertura della Fondazione/Museo di Damien Hirst, che meriterebbe un capitolo a parte, e la palma di mostra-sulla-bocca-di-tutti è da spartire in due: Jon Rafman presso la Zabludowicz Collection, e Barbara Hepworth alla Tate Britain. Un video-artista canadese estremamente contemporary e una scultrice britannica appartenente all’avanguardia degli anni 20/30. E’ difficile immaginare l’unione di cose più diverse ma se pronunciate nella stessa frase, danno l’idea di essere ben informati, dallo spettro ampio, e non di star lì a cincischiare.
Per una mia ricerca, ho bisogno di identificare quali opere di un dato artista si trovano nelle collezioni private europee. Mi hanno detto il contatto di un gallerista poco più che trentenne. Sembra che possa aiutarmi. Gli scrivo un’email domenica pomeriggio e nel giro di quindici minuti mi risponde dandomi appuntamento per la mattina successiva Dorchester Hotel, zona Mayfair, ovviamente. Anche se non ci siamo mai incontrati di persona, non corriamo il pericolo di non riconoscerci. Abbiamo entrambi cercato foto su Google per capire a chi saremmo andati incontro. Mi attende in fondo alla sala, seduto su una poltrona che incarna alla perfezione lo spirito classico inglese: fiori, oro e velluto. La postazione è strategica, da lì si possono osservare tutti i movimenti della sala. Utile in un albergo che ospita numerosi collezionisti venuti in città per fare shopping. La scena è a metà tra “House of Cards” e “Beautiful”. Il ragazzo ostenta più sicurezza che simpatia. Si lamenta di Londra, diventata un mercato per ragazzi che lavorano in finanza sedici ore al giorno e, non sapendo dove mettere i soldi, acquistano rilevanza sociale attraverso le opere d’arte (sempre gli stessi artisti). “Quindi è tutto un mercato intorno a 200 mila sterline, questo è il tetto. Nulla più”, mi dice il giovane gallerista con tono sprezzante, alludendo alla volgarità del loro portafoglio così limitato. Annuisco, sottolineando che è proprio lì il problema, lui compreso. Ma Narciso, lo sappiamo, ha solo occhi per vedere, non orecchie per sentire. L’appuntamento deve essere breve, “siamo gente impegnata”. Mi congedo, aspettando che si alzi insieme a me ma con tono fiero alza lo sguardo e dice: “questo è il mio ufficio”, orgoglioso dalla sua poltrona in pelle. Non tradisco emozioni, per una volta, ma il caffè, penso, era pessimo.
Di corsa ci si sposta tutti a Parigi, lì non saremo radunati sotto una tenda ma sotto le vetrate maestose del Grand Palais, che gioia un po’ di Europa Continentale. Almeno fino al prossimo appuntamento, il calendario è fitto. Di corsa ci si sposta tutti a Parigi, 42° edizione di Fiac, una delle più antiche fiere internazionali. Lo schema è lo stesso, le persone pure, la lingua franca rimane l’art-english. Negli ultimi anni la fiera di Parigi ha ripreso posizioni, contendendo a Frieze il secondo posto (dietro Art Basel) di appuntamento fieristico annuale, per giro d’affari, presenze dei collezionisti che contano, eccezionalità delle opere offerte, etc. Siamo nella città delle avanguardie del ’900, non c’è quindi bisogno di creare una fiera di moderno e una di contemporaneo, come a Londra: tutti sotto lo stesso tetto con opere surrealiste accanto agli artisti del momento. Un’indigestione visiva, dove i nostri occhi scorgono a ogni sguardo decine e decine di forme, colori, significati. Al primo piano le gallerie giovani, nate da non più di 5 anni, lo stand lo pagano la metà a condizione di presentare un solo artista. “Curare uno stand solo” si dice, lì dove tutto è curatela e noi curatori ci troviamo soffocati da un titolo che non ci è mai piaciuto. Sono presenti 173 gallerie provenienti da 23 paesi diversi, metà delle quali avevamo già visto a Londra.
Ogni fiera che si rispetti è accompagnata da visite speciali, dibattiti, proiezioni, presentazioni di premi e onorificenze varie, sculture nei parchi. Se a Londra era Regent Park, a Parigi tocca ai Jardin des Tuilleries. Di fronte alla fontana principale, il nostro sguardo viene disturbato da Circle of Animals/Zodiac Heads del cinese Ai Wei Wei, un artista stratega che si è reso noto al mondo per il calcolato vittimismo di dissidente. Uno pseudo martire che piace tanto da queste parti e non bisogna neanche cercare le sue opere, sono loro a trovarci. Come da copione, dopo l’inaugurazione della fiera sono tutti ospiti a cene varie, perché ogni galleria che si rispetti invita i suoi ospiti preferiti, facendo a gara per impressionare. Straordinario l’evento organizzato al museo della caccia e della natura, si ballava fino a tardi accanto a teste di alci, tigri, o orsi bruni imbalsamati. Un corto circuito di Grande Bellezza parigina. Quest’anno la mostra sancta sanctorum è al Palais de Tokyo che presenta I <3 John Giorno di Ugo Rondinone, ritratto che l’artista dedica al suo compagno, poeta radicale sopravvissuto agli anni 60. Il giorno successivo è invece quello dedicato alle inaugurazioni delle gallerie. Si entra e si esce, ci si saluta ritrovandosi nel Marais, quartiere che sembra nato per tutto ciò che il mondo dell’arte cerca e in cui si identifica: giovanile, di bell’aspetto, snob e gauchista, molto bourgeois bohemien. Si susseguono, di nuovo, cene, feste e ricevimenti. Dopo due settimane, i sorrisi sono ancora ostentati ma ora un po’ rigidi, sempre più di circostanza. Si riparte, tutti a Beirut per l’inaugurazione di un museo provato. Noi passiamo. Un po’ perché allergici ai movimenti di massa, un po’ perché ogni tanto abbiamo altro da fare.
[**Video_box_2**]Ma dopo questa overdose di nomi, figure, colori, informazioni su chi si è incontrato, le scoperte fatte, i pareri uniformati, cosa rimane? Questo clamore mediatico, unito al successo di pubblico, riflettono poi un risultato interno di natura economica?
L’arte non è più solo un bene di consumo ma in questi anni viene percepita come un bene rifugio su cui investire e da rivendere nel giro di qualche mese. L’informazione deve quindi prevalere sul gusto, questo può anche non esserci. Questo gioco speculativo, unito alla rapida espansione del mercato oltre i confini occidentali, ha creato un’industria del lusso, dettata da schemi finanziari, gestita senza regola alcuna. I malintenzionati trovano terreno fertile – misti ad appassionati che invece sostengono la pura creatività. Tutto ciò si manifesta teatralmente durante le fiere internazionali dove trovo gente confusa che compra arte per i motivi sbagliati. Gli artisti sono inficiati dalla troppa consapevolezza del loro (fugace) successo. Urge crisi riparatrice.