Perché l'arrivo di Calabresi a Rep. fa dire a Scalfari: qui c'è un problema
Roma. L’altra sera Eugenio Scalfari è stato duro, durissimo nei suoi colloqui privati: “Dal 17 gennaio non scriverò più su Repubblica”, ha detto quando è stato informato, prima da Ezio Mauro e poi Da Carlo De Benedetti, che Mario Calabresi sarebbe andato a dirigere il giornale che lui aveva fondato il 14 gennaio 1976. In redazione, a Largo Fochetti, strabuzzano gli occhi, le parole “cambiamento epocale” vengono maneggiate da tutti, e qualcuno, senza cautela, maneggia anche questa espressione: “E’ la fine di Repubblica”. La Repubblica che tutti hanno conosciuto fino ad oggi.
Ed è vero che è da Repubblica che veniva, ed è a Repubblica che torna, il giornale nel quale conosce tutti in quell’ufficio centrale dove entrò giovanissimo nel 2004 (anno in cui il quotidiano si trasferì dalla sede di Piazza Indipendenza a quella nuova di Largo Fochetti), e davvero è amico di tutti nella nomenclatura, legato affettuosamente ad Angelo Rinaldi e a una parte della “macchina” di Rep. – pressocché invariata da quando lui lasciò il quotidiano romano per andare a dirigere la Stampa di Torino nel 2009. Eppure Mario Calabresi alla direzione del giornale-partito della sinistra italiana è anche un alieno. Ed è forse questa idea che Scalfari ha voluto manifestare minacciando di abbandonare la sua creatura: il Fondatore non riconosce a Calabresi la grammatica che negli ultimi diciotto anni lui ha condiviso con Ezio Mauro. Così non poche domande, inquietudini, dubbi e timori ronzano in queste ore nei corridoi del giornalone amministrato da Monica Mondardini, l’ad di Cir, la holding che controlla il gruppo Espresso: cosa ne farà Calabresi di Repubblica? Che giornale sarà quello di Calabresi, lui che è sempre stato “dentro” ma anche “fuori” dalle logiche più militari di un giornale-chiesa, o addirittura giornale-militare, un organismo compatto che per quarant’anni, ininterrottamente, si è mosso con il passo risoluto della legione tebana, prima sotto la guida di Scalfari, tenero e dispotico barbapapà, e poi con Ezio Mauro, inscalfibile interprete morale, con Peppe D’Avanzo, del più duro ed efficace antiberlusconismo d’Italia? Che ne sarà del giornalone delle battaglie civili, delle polemiche violentissime, del quotidiano che, citando Gobetti, Mauro definiva “una certa idea dell’Italia”? Calabresi è sempre stato “dentro”, ma anche “fuori”, e con Silvio Berlusconi, per esempio, anche negli anni del più acceso conflitto, ha sempre e malgrado tutto mantenuto un rapporto di stima personale più volte ravvivato da telefonate cordiali, incontri, colloqui persino affettuosi, con il Cavaliere che gli confessava: “Ma lo sa che io conoscevo il suo papà?”. Lo scopo di Scalfari e poi di Mauro era di consegnare ogni giorno alle tipografie non un quotidiano, ma una nave ammiraglia capace di guidare dall’esterno la vecchia sinistra italiana. E adesso?
[**Video_box_2**]Calabresi è stato scelto da De Benedetti, ed era stato l’Ingegnere, qualche mese fa, in colloquio con il direttore del Foglio, a pronunciare parole che oggi suonano perfettamente intellegibili: “Non bisogna essere degli scienziati della politica per capire che da quando Berlusconi non è più presente come lo era un tempo la sinistra è rimasta letteralmente senza ideali. Per molti è stata una disfatta: che cosa siamo noi senza Berlusconi? E soprattutto: cosa interpretiamo? E come facciamo ad aggregarci e a stare insieme senza il grande aggregatore?”. E De Benedetti anticipava così, forse involontariamente, forse, la fine di un ciclo anche dentro il giornale caserma, quella meravigliosa macchina redazionale governata da regole ferree, un perfetto ingranaggio, un meccanismo prodigioso attorno al tavolo lungo e stretto in cui si consuma il rito quotidiano della riunione di redazione. Berlusconi non c’è più, adesso c’è Matteo Renzi. Qualcuno a Repubblica teme che possa mancare il coraggio d’imbracciare ancora le armi per orientare, correggere, indicare la via, interpretare il mondo della sinistra, quello dei lettori di Repubblica. Forse lo teme anche Scalfari. E per questo, pare, se ne andrà. Ma chissà.
Universalismo individualistico