L'islam, la guerra e lo scontro di civiltà
Quando un conflitto sociale, politico, ideologico, religioso, etnico si esaspera al punto da provocare un numero di vittime così alto da far pensare a una guerra, o a essere di fatto, anche se non formalmente, una guerra, il primo effetto è che le parti in conflitto si mettano a ragionare soprattutto, se non esclusivamente, in termini bellici. Loro vogliono uccidere noi, anzi lo fanno. Quindi noi dobbiamo uccidere loro e dobbiamo anche volerlo con determinazione e senza scrupoli. Quando si impugnano le armi per attaccare e per difendersi, il modo di ragionare si semplifica enormemente e fa a meno di molti dati di conoscenza che un momento prima sembravano ovvi.
Dopo i sorprendenti, cruenti e vili attacchi terroristici del 13 novembre scorso a Parigi, nei quali è stata intenzionalmente colpita la massa dei cittadini occupati in attività tipicamente pacifiche (nei mercati, nei caffè, in uno stadio, in un teatro), in Francia e anche nel resto d'Europa si è definitivamente capito che il terrorismo non è qualcosa di sostanzialmente diverso da un'azione di guerra, una guerra che non ha più bisogno di essere dichiarata.
La guerra di cui si parla sempre di più in Europa e con maggiore decisione in Russia e in Francia, è la guerra di una serie di stati che si schierano per combattere e se possibile "annientare" un nemico comune. Questo nemico in questo momento è l'Isis, come ieri era Al Qaida. Quest'ultima era effettivamente una base e rete terroristica formata da un numero limitato di individui specializzati, cioè non solo molto motivati, ma anche molto preparati e legati da vincoli di controllo reciproco. L'Isis è una novità. Si propone come una nuova forma di stato, un califfato nato e in via di crescita numerica e territoriale, con lo scopo di rappresentare per gli islamici di tutto il mondo un modello perfettamente tradizionale, efficiente, deciso, di formazione politico-religiosa che interpreta il "jihad" non come impegno religioso ma come guerra santa contro gli "infedeli" di prima, seconda, terza fila: contro tutto il mondo occidentale, il suo potere e la sua cultura e contro i tiepidi, vili e "traditori" islamici che non si decidono a combattere coloro che, attualmente e storicamente, sono i più pericolosi e potenti nemici di Allah e del suo popolo di credenti.
L'isis in questo senso rappresenta, vuole rappresentare, può arrivare a rappresentare il punto di vista, le convinzioni, i sentimenti di "ogni buon islamico" invitandolo a essere coerente e a passare all'azione combattendo il nemico con tutti i mezzi. Il terrorismo è un modo di combattere: il primo e più efficiente modo di combattere un nemico superiore economicamente e militarmente.
Da tempo i paesi occidentali hanno scelto di usare in guerra ogni tipo di tecnologia per vincere più velocemente possibile evitando ai propri soldati i rischi che si corrono combattendo sul terreno. Al primo posto ci furono soprattutto gli americani nella Seconda guerra mondiale, con la pratica sempre più estesa dei bombardamenti sulle città, fino a quelli finali su Hiroshima e Nagasaki. Più tardi, in Vietnam, bombardare e bombardare, distruggere l'habitat umano del nemico prima di impegnare truppe di terra, è stato il metodo caratteristico di quella lunga guerra.
Oggi al terrorismo del jihad si risponde con i bombardamenti russi e francesi in Siria. Bombardamenti tanto distruttivi quanto simbolici: simbolicamente sono esibizioni di reattività e di potenza, ma distruttivamente colpiscono soprattutto i civili. I terroristi incoraggiati, sostenuti, addestrati e indottrinati dall'Isis, o che scelgono autonomamente di firmare come Isis i loro attentati, sono però individui nati e residenti dovunque: possono essere cittadini islamici francesi, belgi, britannici, americani. Colpire l'Isis nei territori che ha recentemente conquistato si rivelerà perciò particolarmente inefficace nella lotta contro le azioni terroristiche, che sono la più insidiosa delle armi quando arrivano a mobilitare, in varia e imprevedibile misura, qualunque individuo di cultura islamica.
Con l'enorme aumento degli islamici in Europa, la vita delle nostre società è perciò, oggi, irrimediabilmente destabilizzata. Per quanto ci si sforzi di resistere nel mantenimento della normalità, nessuno potrà controllare ed eliminare il timore e il senso di allarme. Ci distraiamo con i consumi, la comunicazione, la pubblicità, l'incredulità, le abitudini della pace. Ma i fatti non mi sembra che lo consentano. Siamo sia in guerra sia in presenza di uno scontro di civiltà, le cui radici affondano in un lungo passato coloniale.
Hollande ha detto che non c'è scontro di civiltà perché il terrorismo non è civiltà. Si sbaglia. La civiltà, la cultura islamica, come tutte le civiltà e culture, restano tali anche quando producono barbarie. Anche il nostro occidente ha prodotto e produce barbarie. Quando pensiamo alle pericolose ambivalenze morali, religiose, politiche dell'islam, dovremmo riflettere almeno per qualche minuto alle pericolose ambivalenze delle società occidentali che si dichiarano o si credono cristiane. Il Cristianesimo non ha mai impedito all'occidente di dominare, umiliare, opprimere, sterminare altri popoli e altre culture.
Autocritica? Si, autocritica, cioè consapevolezza. Uno dei punti d'onore della cultura occidentale è la critica esercitata in tutte le direzioni e circostanze. L'autocritica dell'occidente è perciò una cosa che non possiamo vietarci. Lo stato di guerra non può farcela censurare. Noi dimentichiamo, vorremmo comprensibilmente dimenticare, gli orrori del nostro colonialismo e la lunga durata dei suoi effetti. Chi lo ha subìto, però non sempre dimentica. Loro vogliono vendicarsi dell'Europa per il fatto di averli dominati e umiliati per due secoli e fino a oggi. Siria, Libano, Giordania, Palestina, Israele e Iraq sono degli stati inventati dagli inglesi e dai francesi, con tutte le conseguenze che una tale invenzione ha saputo provocare.
[**Video_box_2**]Noi oggi abbiamo vendicato e vendichiamo l'attacco a New York, Londra, Madrid, Parigi con i nostri bombardamenti. Sebbene né il Vangelo né il Corano possano approvare gli omicidi e le stragi, sia loro che noi sentiamo il dovere politico, morale e militare di colpire il nemico senza scrupoli, senza rimorsi e con "giusto odio". Qualcuno in Francia, in segno di libertà e di sfida morale, ha adottato la formula: "Non avrete il mio odio". Una tale formula è stata considerata dolciastra. Invece è un'espressione che in modo più o meno consapevole vuole essere politicamente efficace a costo di essere ipocrita. Esprime un desiderio, una rivendicazione di superiorità morale di fronte al nemico, che va combattuto ma non odiato. E' possibile questo? E' come dire: ti bombardo senza neppure odiarti, per me non sei nulla. Si tratta di retorica non umanitaria ma tipicamente e orgogliosamente bellica, ispirata da una specie particolare di disprezzo asettico. Anche in una tale frase si legge lo scontro di civiltà.
Credo che sia impossibile negarlo: esiste un islam radicalmente antioccidentale e un islam moderato. Uno studioso come Bernard Lewis ha più precisamente articolato la distinzione in tre modi islamici di vedere l'occidente. Ci sono coloro che lo considerano un nemico "antico e irriducibile" che impedisce la restaurazione della fede e della legge di Allah nella loro patria e il suo trionfo nel mondo: per costoro l'unico e giusto modo di comportarsi è combatterci con ogni mezzo.
Ci sono altri islamici che nelle società occidentali vedono sia difetti che meriti (come lo spirito critico, la libertà, la scienza, l'idea democratica). Pur restando fedeli alla religione e alla cultura islamica sono sinceramente inclini a collaborare con gli occidentali per migliorare la situazione.
Ci sono infine i più ambigui: sono gli islamici che pur vedendo nell'Occidente un nemico e "la fonte di ogni male", ne temono la potenza e sembrano disposti a stringere accordi, ma solo "per prepararsi meglio allo scontro finale". L'avvertimento di Bernard Lewis è che non dobbiamo confondere il secondo tipo con il terzo.