Rileggere Baudelaire per capire il Belgio terrorizzato di oggi
"Vista da vicino, la Francia ha un’aria barbara; se però andate in Belgio diverrete meno severi col vostro paese", scrisse sulle turbolenze di questi giorni un autore morto centocinquant’anni fa. Per comprendere gli eventi talvolta basta prevederli, e a Charles Baudelaire fu sufficiente una tournée di conferenze fra Bruxelles e dintorni – un fallimento, inevitabilmente – per ricavarne la visione del Belgio come ventre molle e nucleo marcio del continente, quale sta puntualmente dimostrandosi oggi. Decise allora di comporre un’opera magmatica che usasse la nazione ingrata come serratura e panottico da cui sbirciare i mali d’occidente. D’altronde, diceva, un libro sul Belgio implica la sfida a essere divertenti parlando della noia e istruttivi parlando del nulla. Rimasto allo stato di appunti sparsi, “Pauvre Belgique!” (1908) non si trova facilmente; in Italia circola da vent’anni un’edizione antologica Feltrinelli sotto il titolo “Ultimi scritti”. Anche in Francia l’edizione Gallimard è vecchia di un quarto di secolo: non sono pagine per la consolazione dei contemporanei, eppure rileggerle servirebbe più delle chiacchiere degli intellettuali che otturano i quotidiani da due settimane.
Per Baudelaire il Belgio è la parodia della Francia e i belgi sono scimmie che imitano i francesi prendendo sul serio ciò che questi ultimi hanno di deteriore, nella speranza di essere annessi da una nazione più grande che li ignora o li disprezza. Sono molluschi, dotati di prodigiosa stolidità e ottusità stupefacente, facili a opprimersi ma impossibili a schiacciarsi grazie alla loro minacciosa stupidità – denotata dal tipico volto brussellese, scuro, informe, dalla bizzarra conformazione delle mascelle – talmente universale da essere inquietante come un pericolo permanente indefinito. A qualsiasi età, un belga sembra un pensionato. Baudelaire visita Liegi, Bruges, Namur, Malines, Anversa, Gand e ne conclude che il Belgio è un’arlecchinata diplomatica, oltre che un bâton merdeux.
Ora che si è compiuta l’annessione inversa e i francesi, come noi, hanno consegnato a Bruxelles il destino dell’Europa unita, possiamo capire ciò che Baudelaire definisce la menzogna della libertà belga e traduce in tirannide dei deboli, diffidenza universale reciproca, presunzione e fatuità favorite da un fiorire di associazioni dovuto al fatto che, associandosi, gli individui si dispensano dal pensare individualmente. Nel Belgio scorge ciò che la Francia sarebbe divenuta se fosse rimasta nelle mani della borghesia, di una classe ingovernabile non per eccesso di vitalità ma a causa della totale assenza di idee e di sentimento, quello religioso in particolare. Ostili al cattolicesimo e favorevoli ai funerali civili per sottrarre cadaveri alle chiese, i belgi hanno una specifica empietà che è contraffazione di quella francese ma elevata al cubo; sono liberi pensatori bigotti fra i quali può trovare proseliti solo un prestigiatore. Imbevuto di una filosofia da esportazione che inghiottisce come cibo sublime, il Belgio di Baudelaire è pieno di gente che crede che Cristo sia stato un grand’uomo, che la natura insegni solo il bene, che la morale universale sia venuta prima dei dogmi di ogni religione, che l’uomo possa tutto e che il vapore, la ferrovia e l’illuminazione a gas provino l’eterno progresso dell’umanità. L’Unione europea ci mostra come radioso futuro comune il Belgio di metà Ottocento, teatro dell’autodistruzione di Baudelaire negli ultimi due anni di vita cosciente: lì rimase, incapace di staccarsi dall’orrore che ne provava, prima di essere raccattato sui gradini di una chiesa e riportato a Parigi.