Solo la commedia può dire la verità, quella di Quo vado? è terrificante e vera
C’era una volta una guerra culturale. Il ceto medio riflessivo di qua, la volgarità di Checco Zalone di là. Al massimo, “fa ridere ma non è il nuovo Totò, non è il nuovo Sordi”, e poi “non c’è una storia, è solo un cumulo di gag”. Questa guerra finisce il primo gennaio, con l’uscita di “Quo vado?”. Quantomeno dovremo rifare le squadre mentre guardiamo l’Italia migliore e la società civile ridere con la rima “Margherita Hack / don’t want you fuck”.
Con il quarto film – il più rischioso, difficile, scritto e ambizioso realizzato sin qui – per Checco Zalone si spalancano le porte del famigerato “specchio del paese”. Quella cosa che detestiamo. Quella cosa che da noi nobilita la commedia, rende necessario il film d’autore e l’opera di denuncia perché “è un film che fotografa l’Italia”. Nessuno esce vivo dallo specchio del paese. Tranne Checco Zalone. Mentre l’Italia migliore non si rendeva conto che Gennaro Nunziante dirige i bambini meglio di tanti registi da Oscar o che di “storia” spesso ce n’era poca pure in Sordi e quasi niente in Totò, lui metteva a punto il colpo di grazia. Addio Puglia, Zelig e Telenorba, benvenuta commedia all’italiana.
“Noi posti fissi eravamo venerati come dei”, spiega Checco all’inizio del film, guidandoci nel racconto dell’ultima epica nazionale, accompagnandoci nelle limpide trame della grande narrazione statale. Perché il posto fisso non è un mito, ma una religione. “Il posto fisso è sacro”, come ripete il senatore Lino Banfi.
C’è la mamma, la pasta al forno, la tredicesima, c’è l’italiano all’estero con Checco Zalone che va in Norvegia e diventa Checco Zaløne con tanto di inguardabile pizzetto biondo. C’è lo scontro di civiltà tra noi e la modernità, quella cosa che nutriva le nostre commedie migliori e non sapevamo più scrivere pensando che il conflitto fosse risolto e invece era solo che avevamo preso a guardarlo dall’alto dell’Italia migliore. Più che i film in cui spedivamo Sordi in Svezia, a Londra o in Australia per estrarne il massimo di “italianità”, la parte norvegese di “Quo vado?” sembra infatti il ribaltamento dell’ennesimo servizio di “Ballarò” sui cervelli in fuga o di una puntata di “Report” sul welfare dei paesi nordici. “Lo sai che qui se non lavori ti pagano?” spiega Zaløne al padre, “ma perché in Italia che abbiamo fatto tutti questi anni?”. Lo diceva anche Monti: “Il posto fisso è noioso, abituatevi a non averlo”. Raggiunse così nel 2012 la vetta più alta della sua impopolarità da presidente del Consiglio. Peggio che il “bamboccioni” del povero Padoa Schioppa. In politica, come nella vita, il tempismo è tutto. Bastava aspettare qualche anno e limitarsi a dire: “Andate a vedere il quarto film di Checco Zalone, il più bello di tutti”.
[**Video_box_2**]Perché Zalone si è guadagnato il diritto di trattarci come ci trattavano Monicelli, Risi, Sonego, Sordi. I paragoni non c’entrano. Conta il principio. E il principio dice che solo alla commedia all’italiana era concesso dire la verità sul nostro paese, su chi siamo, cosa vorremmo essere, cosa non saremo mai. A patto di poterci ridere sopra. A patto di non infilarci la lezione morale. Un po’ come solo ai governi “di sinistra” concediamo fare cose “di destra”. “Quo vado?” piacerà ai fan di Zalone e piacerà al ceto medio riflessivo, la cui somma fa esattamente i cinquanta milioni di incasso previsti da Valsecchi, anche perché il film è programmato in oltre milletrecento sale (“non siamo noi che abbiamo occupato i cinema”, spiega Valsecchi, “sono gli esercenti che ce lo chiedono per non sparire” ). Se le cose vanno come devono andare e come Zalone si merita che vadano c’è solo il rischio di ritrovarselo trasformato in maître à penser. Noi ci auguriamo di no. O almeno speriamo che la Costituzione su RaiUno la legga al contrario, come Helter Skelter.