L'occidente tra sofismi e sottomissione
Parigi. A Barbès, Parigi nord, davanti a un commissariato i gendarmes hanno ammazzato un tizio con una cintura esplosiva finta e forse un coltello: minacciava sfracelli gridando Allahu akbar, Dio è grande. Forse era un pazzo sfrenato, forse è un episodio sinistramente obliquo come il tentativo di investimento in auto di una pattuglia di sicurezza davanti alla moschea di Valence, qualche giorno fa, con annessa sparatoria e ferimento grave di un isolato, di uno strano. Fosse una cosa seria, si rinnoverebbe la paura, e ancora non hanno celebrato l’anniversario (9 gennaio) della presa d’ostaggi nel mercato kosher, con fucilazione di ebrei da parte di Amedi Coulibaly, islamista radicalizzato in carcere, come si dice, accanto a Cherif Kouachi, uno dei due fratelli che avevano steso quelli di Charlie Hebdo e un poliziotto musulmano “apostata” e proclamato la vendetta in nome del Profeta. Prevalesse l’aspetto sinistro e meno decifrabile, pazzotico, ne seguiranno polemiche dure sull’eccesso sécuritaire, l’isteria al cospetto del pericolo islamista. Ecco, situazione perfettamente assurda e di notevole surreale violenza.
E’ valsa la pena stare qualche giorno a Parigi in epoca di anniversari stragisti. Si capisce quasi tutto del clima di sottomissione in cui viviamo in occidente. Non è un problema francese, ovvio. Obama ha pianto, in questa congiuntura, con duecentocinquantamila morti siriani e un esodo biblico causati anche dalla sua straordinaria inazione, perché il popolo americano, stimolato da una lobby di cattivi produttori e venditori di armamenti sempre castigati anche da Francesco, non vuole farsi disarmare. Farà dei decreti inutili, vanitosi, retorici, mentre in un’Università della Virginia, la Liberty University evangelica, il senato accademico chiede a insegnanti e studenti di armarsi per difendersi. Non è un problema francese, chiaro. In Libia, alle nostre porte malamente custodite, l’orrore avanza a grandi passi: la perseguita autodeterminazione del valoroso popolo libico si confronta con una settantina e più di morti ammazzati da sparse tribù del jihad che si richiamano allo Stato califfale islamico. Poi ci sono i fatti di Colonia, imbarazzanti per lo meno, il nuovo Jihadi John si fa vivo con un accento superbamente british, e più ancora saremo destinati a subirne.
Ma quel che spiega tutto è lo stato della discussione, l’odg molto foucaultiano e bourdieusiste, al quale è appeso il grande paese delle grandi idee sconvolto nel 2015 da fenomenali atti di guerra contro la libertà di espressione e la vita civile ordinaria, da gennaio a novembre. Guardate la tv, leggete i giornali, passate in libreria, osservate le mosse politico-parlamentari: un panorama di pazziate da non potercisi raccapezzare. Scontro politico sul nulla simbolico: Hollande solennemente si pronuncia per una misura proposta dalla destra, con chiari scopi di nichilistica unità nazionale sul diversivo. Vuole togliere la nazionalità francese ai cattivi condannati per terrorismo, ma sembra solo a quelli che di nazionalità ne hanno due, francese per dire e magari algerina o di qualche altro paese arabo-islamico, altrimenti si creerebbero degli apolidi, degli apatrides (e c’è chi scherza sull’inno glorioso: allons enfants des apadrides…). Non si capisce: ne nasce, e su una misura che sa di niente sul piano dell’efficacia, anche per ammissione di chi la propone, una disputa costituzionalistica sui valori universali del tutto insensata. Un anno dopo, la perdita di tempo.
Ma la politica, si sa, è in balia delle procedure del consenso. Vediamo la cultura, che come dice Richard Millet è stata rimpiazzata dal culturale, il fratellino scemo. Dopo un anno si sarà capito che come dice il poeta è la semplicità che è difficile a farsi. E per questo è obbligatorio farla. Niente. Si parla di frustrazione sociale, di mancanza di spirito di inclusione, di radici economico-sociali del disastro violento e minaccioso che ha colpito il paese e l’occidente. Si parla della radicalizzazione e dei suoi percorsi, si indaga con documentari, anche ben fatti, inchieste, storytelling di vario conio, e larghissimi dibattiti di idee. Si inventa, come antidoto alla scorrettezza dello scontro di civiltà, la guerra civile: siccome alcuni autori dei massacri sono cittadini francesi, allora è una guerra fratricida interna. Di qui la pressione ridicola per sanzionare con l’indegnità nazionale gli shahid che alla République preferiscono il paradiso coranico del martirio. Viene invocata la “sociologia post-traumatica”, che Dio li perdoni. Quello religioso è un fatto sociale come un altro, alla stessa stregua, e la dialettica tra decristianizzazione dell’occidente e risveglio islamico è derubricata a fobia degli islamofobi. Si apre il quadernetto della lotta di classe aggiornata alla bisogna dell’attualità: il combattente venuto dalle banlieues è un soggetto di critica della globalizzazione capitalistica. Oooops! L’esperto Gilles Kepel, che come tutti gli esperti cerca il cuore delle cose e ne ignora la superficie dell’evidenza, tira in ballo la colpa postcoloniale, il risentimento della seconda o terza generazione dei beurs. Il fuoco degli intellos è tutto concentrato contro il concetto di eredità tradita e di identità offuscata, caro a un gruppo di filosofi e saggisti che è stato bollato come alleato della Le Pen per aver detto che la Repubblica deve riconquistare il suo stesso territorio alla sua cultura, che non è culturale, e allo stato di diritto. Tutti sono mobilitati per diffondere la vulgata del Collège de France: la storia è piena di sorprese e deve essere liberata dal peso dell’eredità, concetto statico, tradizionalista, uno dei tanti muri dell’esclusione che gronda sangue.
[**Video_box_2**]Insomma. Due combattenti islamici hanno ammazzato i vignettisti libertini che avevano messo in burla la religione, prendendosi il rischio della reazione violenta giustificata perfino dal Papa, a Parigi come in altre grandi città europee. Su youtube li si vede dire che il loro Dio è al di sopra di tutto e che il suo Profeta è stato vendicato. Si direbbe letteralmente una pistola fumante. Poi a novembre hanno massacrato ragazzi e ragazze che bevevano al bar, vedevano la partita, ascoltavano un concerto in cui li si invitava dal palco rock a baciare il diavolo (“Kiss the Devil”). Altri proclami e pistole fumanti. Ma non basta ancora. Non basta l’ovvia considerazione che queste cose succedono per ogni dove, dopo l’11settembre hanno colpito la movida di Madrid alla stazione di Atocha, il tube a Londra. Che la radicalizzazione non è nelle periferie, è nel centro del mondo musulmano, dipende da scelte, culture, linguaggi, programmi, strategie che sono riconoscibili e non vengono dalla frustrazione ma dall’orgoglio fanatico che si nutre del succo della Rivelazione islamica per come è sempre e dovunque storicamente stata intesa. Non basta. Un anno dopo, questo grande paese di orientalisti e di esperti continua a piétiner sur place, a pestare l’acqua nel mortaio. Non c’entra la religione, non c’entra l’antigiudaismo. Per fortuna una bella corrispondenza ieri di Mauro Zanon, a colloquio con Jean Birnbaum, redattore libero del Monde, ha segnalato che qualche eccezione al pensiero dominante si fa strada anche nella gauche intellettuale. Ma è un’eccezione, appunto. La parola islam non va pronunciata, significa un improprio amalgama, e anche l’idea che la patria sia in guerra è un regalo al Califfo, i disperati del Bataclan erano solo compagni che sbagliano.